Diritto e Giustizia nella Roma repubblicana

basilica iulia

Il bisogno di libertà è antico.

Per Anassagora il compito essenziale di ogni scienza, degna di rispetto, sta nella capacità di separare, mettere ordine in ciò che all’origine è confuso e mescolato.

Il concetto è ripreso nel Rinascimento italiano da molti studiosi ed intellettuali e tuttora si contrappone chiaramente alla tendenza che predilige lo sguardo d’insieme dei  fenomeni per coglierne il loro legame, cosiddetto “spirituale”.

In questa dualità di atteggiamenti scientifici può leggersi l’origine e la ragione dello scontro manifestatosi all’epoca delle discussioni sulla Costituzione Europea: quando i fautori delle radici giudaico-cristiane del Vecchio Continente  furono vittoriosamente contrastati da chi intendeva riconoscere le proprie origini  nella civiltà romana; distrutta, è vero, dalle successive invasioni barbariche, prima mediorientali e poi germaniche ma, certamente, non doma e ancora viva, almeno nel cuore di molti suoi “figli”.

Nell’affrontare i problemi del Diritto e della Giustizia dell’antica Roma, limitati al periodo detto “preclassico” e comprendente gli ultimi due secoli della Repubblica, chi ne scrive può muovere dalla premessa che se, nell’età giovanile degli aggregati umani, diritto, morale, costume, economia, politica sono sempre intrecciati insieme, un popolo adulto ( e tale era quello dei nostri antenati Romani, al tempo sopra indicato,) deve saper separare i concetti, sia nel campo del Diritto sia in quello della Giurisprudenza in modo chiaro e comprensibile.

I Romani della Repubblica ebbero tale merito e seppero, inoltre,  comprendere appieno il bisogno di libertà del cittadino.

La loro parsimonia nella creazione di norme giuridiche non può che essere letta in tale chiave.

Oggi la pletora di leggi, interne e comunitarie, che ci circonda, spesso soffocandoci, costituisce un elemento importante per farci capire che siamo avviati su una china, dove la nostra libertà è sempre più precaria ed a rischio d’estinzione.

A differenza dell’attuale degrado del mondo Occidentale, soprattutto nella sua parte Euro-continentale, la realtà socio-politica della res publica romana era un vero e proprio modello di perfezione dal punto di vista dell’ordinamento.

Era, secondo Polibio, una realizzazione pratica migliore  delle teorizzazioni astratte di Platone.

Tale superiorità, si può aggiungere con lo storico greco, i Romani l’avevano dimostrata con i fatti, mentre le dottrine del filosofo ateniese sulle forme dello Stato erano sempre restate solo elucubrazioni teoriche.

Il giudizio positivo dello storico era ampiamente condiviso da Theodor Mommsen che, nel 1948,  affrontando nel suo  lavoro sul periodo storico della Repubblica, (poi pubblicato in tre volumi tra il 1854 e il 1856) attribuiva ai principi del diritto romano il merito di avere portato alla libertà i popoli dell’intera Europa.

Testualmente, lo storico tedesco scriveva:  “se …noi ci sforziamo di mettere insieme un ordinamento adatto a liberi cittadini, possiamo seguire per questo riguardo incondizionatamente ….il diritto romano …e saremo sicuri di trovarvi uno spirito che si oppone assai spesso al principio di solidarietà dei cittadini tra loro, non mai, però,  a quello della libertà individuale”.

Il “liberalismo” del diritto romano privato (che, è bene aggiungerlo, non conosceva  nessuno degli  istituti giuridici elaborati successivamente dai fautori del capitalismo moderno), ben messo in luce dallo studioso Mommsen (sospettato, per le sue idee, di essere un “rivoluzionario”), aveva creato in Occidente la communis opinioche l’idea di  libertà fosse nata a Roma. Da molti  era considerata espressione del bene più alto che una comunità organizzata potesse avere.

Naturalmente, si trattava di una libertà che, a Roma. si espandeva in diverse direzioni.

I Romani ritenevano, in primo luogo, che la loro Nazione non potesse accettare nessuna idea di sudditanza e dovesse strenuamente difendere la propria indipendenza e autonomia dalle monarchie orientali, opponendosi, strenuamente, a ogni tipo di intromissione esterna. Roma, in definitiva, doveva restare per i suoi cittadini una sorta di paradiso della libertà.

Sul piano personale il concetto di libertà era molto chiaro, limitato nel rispetto dell’analogo diritto altrui ed espresso in precisi termini giuridico-pratici. Era soprattutto strettamente individualistico e nasceva dall’idea dell’humanitas, una creazione autonoma dei Romani (la parola era molto  amata da Cicerone ma non da tutti i suoi coetanei). Il concetto non esisteva in altri luoghi e neppure in Grecia, anche se nella filosofia dell’Ellade aveva chiari addentellati. Esso esprimeva il sentimento della dignità e della sublimità, proprie degli esseri umani, al fine di porli al di sopra di tutte le creature viventi di questo mondo, sotto il profilo dell’indipendenza e dell’autonomia.

Una tale singolare concezione dell’individuo imponeva all’uomo altresì l’obbligo di costruire la propria personalità, educarsi, rispettare e favorire lo sviluppo della personalità altrui; abbracciava la benevolenza, la volontà di fare del bene agli altri, la simpatia e costituiva la fonte principale dei “freni della volontà”, per dirla con Schopenauer, e delle necessarie limitazioni a una sconfinata libertà nei rapporti interindividuali.

L’influenza di tale idea sul diritto e sulla giurisprudenza dei Romani era veramente notevole.

La proprietà,  massima manifestazione dei diritti di libertà, non era neppure definita, anche se il suo contenuto era giuridicamente delimitato (comunque in maniera in molto larga). E ciò,  in relazione sia ai rapporti di vicinanza, sia soprattutto a quelli, per così dire, di diritto pubblico. 

Il matrimonio, nella forma sine manu, ampiamente prevalente, e il divorzio avevano luogo, in Roma, senza intervento dello Stato.

Libera matrimonia antiquitus placuit. Il legame matrimoniale si poteva sciogliere a volontà e non solo per accordo tra i coniugi: anche per effetto di una dichiarazione unilaterale di uno solo di essi. Debole e limitato era l’elenco degli obblighi coniugali: fedeltà, comunanza del nome e del domicilio, esclusione di certe azioni, finchè durava il rapporto. Nessuna traccia di obblighi alimentari e lavorativi; scarsa considerazione del diritto di successione.

Inoltre: la separazione dei beni corrispondeva al sentimento giuridico popolare e non aveva neppure bisogno di essere regolamentata; il matrimonio non cambiava nulla nei rapporti patrimoniali dei coniugi. Nè esisteva un vero e proprio obbligo della dote: poteva esserci e in tal caso il marito ne diveniva il titolare esclusivo, senza alcuna limitazione di disporne (i primi limiti e divieti  risalgono all’epoca imperiale).

Alle visione sostanzialmente libera dei rapporti coniugali contribuiva la stessa collocazione geografica e climatica di Roma.

Storicamente, le religioni che hanno condizionato e ancora oggi determinano il nostro modo di valutare i fatti della vita in modo asfittico, costrittivo, persino autopunitivo  sono nate in zone del mondo aride, brulle, impervie, desertiche o montuose, popolate da esseri umani mal nutriti e mal vestiti. Essi, per effetto delle loro condizioni di vita, non riescono, verosimilmente, a immaginare modalità di vita e pratiche religiose diverse da quelle che impongono a se stessi, in modo che può definirsi masochistico sadico nello stesso tempo.

Quelle credenze riflettono primitivi e selvaggi costumi di vita. Le donne, in quelle terre tormentate da un clima torrido e aspro, costituiscono la parte sottomessa e senza voce dell’umanità.

Lontana e distante dalla mentalità romana era l’idea di una prigionia a vita, propria del matrimonio indissolubile, poi eletto addirittura a “sacramento divino”.

Nel processo penale, l’humanitas esigeva che l’accusato fosse garantito contro la strapotenza dello Stato  attraverso la sicurezza della difesa e il rigido divieto di ogni forma di tortura e di sopraffazione dell’accusato e dei testimoni.

Il processo delle giurie era puramente accusatorio (il piano di parità delle contrapposte posizioni era assoluto). Anche nei giudizi puramente magistratuali (di tipo inquisitorio, quindi; per la riunione nella sola persona del giudice anche delle funzioni dell’accusatoree del difensore), l’humanitas imponeva l’osservanza di fatto delle forme che oggi si definirebbero “garantistiche” del processo accusatorio.

Uno sguardo alle fonti giuridiche romane esclusivamente repubblicane rende palese con immediatezza la singolare riluttanza dei Romani all’astrazione, alla teoricità nella formulazione delle norme giuridiche e nella fissazione in termini definitori dei concetti giuridici. L’atteggiamento, eminentemente pratico e concreto, dei Romani differenzia il loro ordinamento giuridico sia dai prodotti giuridici della nebulosa e utopistica speculazione filosofica greca (ovviamente quella successiva ai pre-socratici, in grande prevalenza empiristi e in larga parte monisti), sia dalle elucubrazioni giudaico-cristiane dirette a risolvere l’ordinamento giuridico in un’apoteosi della fratellanza universale, sia delle sue stesse costruzioni successive, classiche e bizantine.

Tale, rigorosa linea di pensiero è legata al periodo pre-classico della Repubblica: subisce violazioni  a partire dall’ultimo secolo della Repubblica con la formulazione delle prime regulae, prima molto elementari e poi nei tempi successivi sempre più complesse. Essa  è del tutto opposta alla propensione verso l’oscurità di definizioni contorte e complesse (generatrice di grandi sventure, secondo Goethe), tipica sia del diritto naturale sia del diritto romano classico sia, infine, della dottrina giuridica tedesca dei tempi più recenti.

Altro elemento indefettibile della convivenza a Roma, vero e proprio principio di vita,  era la fedeltà (la fides, fit quod dicitur: il termine è diventato ambiguo, equivoco e polivalente solo in seguito), l’obbligo di essere di parola, il vincolo dell’individuo alla promesse fatte, il legame indissolubile con le proprie dichiarazioni. Anche il magistrato è vincolato al suo Editto e non può dare efficacia retroattiva alle norme che emana.

Una tale esigenza postulava che l’amministrazione della giustizia fosse affidata solo a persone adatte, gli honoratiores (appartenenti, in linea di fatto, solo alla classe senatoria e alla cavalleria).

L’idea che potessero amministrarla, come avviene oggi in Italia, giovanissimi impiegati dello Stato, vincitori di un esame di concorso improntato a un semplice nozionismo giuridico (nella Roma repubblicana neppure esplicitamente richiesto: era essenziale la saggezza dell’età matura) stava semplicemente fuori della realtà.

Poi, che le cose andassero sempre in modo perfetto è altro discorso. Era quella, però, la linea di tendenza.

Con il periodo classico del diritto romano (primi tre secoli dell’Impero) e ancor più nel tempo che giunge fino a Giustiniano le cose, a Roma, mutavano radicalmente.

Caratterizzavano questi due ultimi periodi di storia la molteplicità, la mescolanza  tra gli istituti giuridici,  gli ibridi compromessi con normative estranee alla tradizione romana, la complicatezza.

Erano tutte note negative inevitabili derivanti dell’influenza esercitata sui Romani dal labirinto contorto della confusa mentalità prima mediorientale, bizantina, ebraica e cristiana, e poi germanica.

In buona sostanza le concezioni dualistiche platoniche e giudaico-cristiane (molto affini, peraltro, tra di loro) divenivano prevalenti in una popolazione costituita ormai da un grande numero di immigrati, soprattutto mediorientali (inutilmente avversati da Diocleziano, che aveva colto il rischio di quel melting pot ante litteram e determinavano un effetto dirompente sulla cultura giuridica dell’Occidente.

Esse  collocavano, rispettivamente,  le idee platoniche  o le divinità giudaico-cristiane, artefici del divenire, della nascita, della mutazione e della morte degli esseri umani, in una sfera sovraceleste contrapposta al mondo terreno.

Quel mondo del diritto romano,  caratterizzato dalla semplicità, dalla chiarezza, dall’unitarietà, dalla riduzione a pochi concetti chiari, dalla parsimonia nella creazione e nell’impiego degli istituti giuridici come grandi forme isolate e lapidariamente scolpite, dall’intelligibilità favorita da formule brevi e icastiche, dalla grande cura nell’evitare ricezioni di diritto straniero, senza conferirvi una forte e indelebile impronta romana, dal rispetto molto conservatore della tradizione cedeva il passo a quel “nuovo” dei cui effetti deleteri la vecchia Europa nella sua parte continentale (eccezion fatta, quindi, per la Gran Bretagna empiristica e pragmatica come la Roma repubblicana) non s’è ancora liberata.

Luigi Mazzella
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