La lettura capovolta del “De Senectute” Ciceroniano

Maccari Cicero

Vi sono  cose che danno più fastidio se riscontrate nelle persone anziane e altre, invece, se presenti in quelle di giovane età.

Il “gallismo”, per esempio, assolutamente insopportabile in senectute, non cessa di apparire ed essere effettivamente stupido in gioventù, ma trova più accondiscenza (sono degli imbecilli ma sono giovani! – si dice con ostentata benevolenza).

La saccenteria, invece, odiosa nelle persone di una certa età (sono tronfi, ma hanno avuto molte esperienze, magari mal digerite, si dice per trovare una giustificazione) diventa, invece, massimamente insopportabile in quelle giovani  (non hanno alcuna esperienza e parlano, per dogmi, come infallibili oracoli!).

I giudizi sono, ovviamente, più severi e sferzanti quando i vecchi o i giovani fanno attività politica.

Per fortuna del Bel Paese, gli scontri sul “gallismo italico” sembrano oggi solo un ricordo del passato. Quello, invece, tra contrapposte saccenterie divampa in modo più frequente che mai.

Si prenda il caso dei vitalizi ai parlamentari dopo pochi anni di attività; problema importante e delicato  che si è tirato dietro, senza alcuna coerenza e ragionevolezza, i trattamenti pensionistici dei civil servant, con molti decenni di pubblico impiego.

La saccenteria delle persone di una certa età, forte del latinorum acquisito in anni di servizio nella pubblica amministrazione oltre che nella conoscenza di casi giudiziari in materia, si manifesta con una fiducia ostinata per gli interventi di giudici (di varia natura e collocazione) a salvaguardia dei diritti acquisiti, come ricostruiti dalla Corte Costituzionale, delle garanzie maturate, e anch’esse costituzionalmente garantite, in uno Stato che si è sempre vantato di assicurare la certezza del diritto, e dei limiti che in un Paese civile incontrano le disposizioni legislative retroattive in materia previdenziale.

La saccenteria dei giovani, forte paradossalmente, per una sorta di legge di contrappasso, dell’assoluta ignoranza del latinorum, di una sommaria e imprecisa consapevolezza dei limiti derivanti dall’osservanza degli articoli 2,3 e 53 della Carta fondamentale, delle decisioni della Corte Costituzionale nella materia, si esprime con il linguaggio della gauche più tradizionale  (quella sinistra italiana persino dimenticata  ma salvata dal naufragio da una galleggiante “piattaforma” vagante nelle fluviali acque italiche) e parla di lotta ai privilegi dei “nonni in carriola”, mostrando di ignorare (ma la cosa non deve sorprendere) non soltanto i saggi suggerimenti del “Cato Maior, De senectute” di Cicerone ma anche  scritti più recenti  e più specifici sull’acclarata e riconosciuta funzione sociale ed alimentare di ogni trattamento pensionistico.

Naturalmente, il dibattito si sviluppa simile a quello di uno scambio di improperi tra sordi, rinverdendo, in tale maniera, l’italica tradizione di una lotta politica degna dell’epiteto dantesco di “bordello” (dai tempi più remoti a quelli odierni) e ignorando del tutto quella “ragionevolezza”  che dovrebbe contrassegnare la vita pubblica di ogni Paese civile.

Se si facesse ricorso al raziocinio, anzi ché ai moti di stizza, tipici di una vecchiezza ancora agguerrita e bellicosa, e alle improvvisazioni demagogiche di una gioventù, vissuta anch’essa, peraltro  senza sua colpa, nel clima  illiberale di una collettività che non ha mai conosciuto un pensiero veramente libero e autonomo (come ho più volte scritto su questo giornale on line) e ha sempre subìto suggestioni catto-comuniste o clerico-fasciste, la questione sarebbe impostata su ben diverse basi.

Sarebbe esaminata, cioè, nel rispetto del principio di proporzionalità tra contributi versati nell’intera vita lavorativa al servizio dello Stato ed entità delle pensioni, calcolata con i criteri del sistema contributivo, introdotto dalla legge 335/95; aggiornandoli, però, nei suoi coefficienti di trasformazione, con un apposito, nuovo decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale.

E ciò sulla base, naturalmente, di un’età pensionabile non di soli 65 anni (com’è oggi, con il decreto vigente) ma di 75 (com’è o com’è stata per alcune categorie di pubblici dipendenti).

Se i giovani, ancora impregnati per ragioni anagrafiche e (in)culturali  di fanatico velleitarismo gauchiste, si attenessero a tali principi di ragionevolezza, si avvedrebbero che gli errori commessi dalle istituzioni dello Stato sono stati a danno e non a vantaggio, almeno di alcuni  di quei “vecchietti” da loro presi a bersaglio.

Un tempo nelle piazze dei paesini più arretrati della Penisola i ragazzini consideravano gli anziani gli oggetti preferiti dei loro lazzi di dileggio e di derisione e ciò era commentato negativamente e con molta severità dagli adulti del tempo, anche se uomini politici.

Oggi, sembra che quell’antico “tiro al bersaglio” sia ritenuto, da giovani e rampanti leader,  produttivo di voti che possano compensare il consenso ottenuto da iniziative politiche in qualche modo “concorrenti” e sviluppate su ben diverso terreno.

Domanda finale: E’ una scelta avveduta coltivare un minuscolo “orticello” per attendersi più grano di quello che può dare un latifondo? Lo vedremo all’epoca della produzione delle messi.

Luigi Mazzella
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