Antonio TabucchiPER  ANTONIO  TABUCCHI  DIECI  ANNI  DOPO

Rosita Tordi Castria

“La realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena di dedicare il nostro stato di veglia”.

È una dichiarazione, datata Lisbona 30 giugno 2008, di Antonio Tabucchi, l’insigne lusitanista che, fin dai suoi esordi di scrittore nel 1975 con il romanzo Piazza d’Italia, ha scelto il tema della giustizia quale tratto distintivo del suo percorso esistenziale e creativo.

Attento ai risvolti ad essa collegati di libertà e uguaglianza, Tabucchi è l’autorevole testimone, con la sua opera di scrittore, saggista, critico militante e drammaturgo, di una fede assoluta nella letteratura e nella scienza:

“Noi amiamo la scienza. E vogliamo che la scienza indaghi, che cerchi sempre di più, che non le si mettano limiti burocratici e religiosi. (…). Alla scienza compete un ruolo, cercare. Alla letteratura un altro: porre domande, inquietare, essere co-scienza critica. (…). Come la scienza, è ovviamente creativa, nel senso che produce qualcosa che prima non c’era, vale a dire che inventa. Ma al pari della scienza non si limita a questo, che è già straordinario: scopre. Nel senso che rivela qualcosa che esisteva già ma che non conoscevamo”.

È in questa linea di pensiero che è stato promosso dalla SICL il convegno internazionale di studi Della Giustizia in Letteratura, che si è svolto nella Università di Bologna nell’ultima decade di marzo.

La giornata conclusiva dei lavori, il 25 marzo, decimo anniversario della morte di Tabucchi, è stata aperta dalla relazione di Rosita Tordi Castria, Letteratura e Pittura. ll cane giallo di Antonio Tabucchi.

 IL CANE GIALLO DI ANTONIO TABUCCHI

“C’è sempre un libro e spesso ci sono molti libri nelle storie di Antonio Tabucchi, in maniera diretta o indiretta”, recita la avvertenza di Paolo Mauri nel saggio introduttivo all’edizione 2018 dell’Opera Omnia. [i]

Nella ‘affannosa ricerca’ dei possibili referenti, che contraddistingue la bibliografia critica di Tabucchi, sorprende la disattenzione per Alberto Savinio, musicista, scrittore, pittore, drammaturgo, che ha praticato una singolare contaminazione tra culture e linguaggi i più lontani e diversi, in un percorso che si snoda lungo la prima metà del secolo scorso, dalla nativa Grecia all’Italia, attraverso un apprendistato a Monaco di Baviera e a Parigi.

È di fatto molto improbabile che, già all’altezza della preparazione della tesi di laurea sul Surrealismo in Portogallo, discussa nel 1969 nell’Università di Pisa,Tabucchi non si sia avvicinato a Savinio, oltreché al più celebre fratello Giorgio de Chirico, protagonisti entrambi di un incontro/scontro con André Breton, il teorico del Surrealismo il quale ne aveva attribuito loro la paternità.

Nel 1975, all’uscita del romanzo Piazza d’Italia, è stato lo stesso autore a richiamare le piazze d’Italia assolate e deserte di Giorgio e nel 1984, in una nota al primo quaderno di Notturno indiano, non ha mancato di manifestare il suo disappunto per il rifiuto da parte dell’editore di accogliere come immagine di copertina, La ricompensa dell’indovino, il dipinto del 1913 del grande Metafisico:

“L’indovino è la creatura deforme che vede il passato e il futuro, in cui si imbatte il narratore durante la sosta dell’autobus che da Madras va a Mangalore e che dovrebbe indovinare dove sia il suo atma.

Il quadro ipotizzato da Tabucchi avrebbe annunciato al lettore la natura del libro: non descrizione oggettiva di viaggi reali, ma itinerari metafisici. Come il sonno/sogno dell’indovino di de Chirico. Ma per la copertina verrà scelta infine un’immagine diversa per suggerimento di Elvira Sellerio, editrice del libro”.[ii]

Tabucchi sa bene che l’immagine di copertina di un libro è un paratesto che è anche a tutti gli effetti Testo quindi ama suggerire lui stesso quella che ritiene giusta.

È il caso della pubblicazione nel 1978 del suo secondo romanzo, Il Piccolo Naviglio, per il quale sceglie quale immagine di copertina il dipinto di Savinio Le Navire Perdu, nonostante l’ironia di intellettuali suoi estimatori e amici.

Al riguardo la nota autoriale introduttiva alla ristampa Feltrinelli del 2011 recita:

“Ricordo gli occhi affettuosamente vigili di Vittorio Sereni, perplesso davanti all’immagine di un quadro di Savinio che forse gli sembrava un Lego, che mi disse: “D’accordo per il giocattolo”. A cosa si riferiva, Sereni, alla copertina che gli proponevo, alla storia del mio libro, alla storia d’Italia che stava dentro la mia storia?”.

Palpabile il fastidio di Tabucchi per la scelta editoriale nel 2011 di una immagine di copertina diversa da quella della prima edizione del 1978: il dipinto saviniano, in cui il movimento delle acque rimanda allo scorrere del tempo, deve ancora sembrargli, a venti anni di distanza, il più idoneo per restituire l’idea del viaggio reale e metaforico nei mari della Storia che sostanzia il suo secondo romanzo.

È peraltro lecito ipotizzare che già allora egli avesse una conoscenza diretta non soltanto dell’opera pittorica ma anche di quella letteraria di Savinio, tornata alla ribalta in quegli anni in seguito alla riproposta, nelle edizioni Einaudi, di Infanzia di Nivasio Dolcemare nel 1973, Hermaphrodito nel 1974, Tragedia dell’infanzia nel 1978 e, nello stesso anno, Angelica o la notte di maggio.

Al di là del singolare sperimentalismo linguistico, si configura in quei romanzi una visione dell’infanzia, quale tempo privilegiato della conoscenza, del tutto in sintonia con quella delineata da Tabucchi in Il Piccolo Naviglio, il cui tema centrale è la vicenda di un ragazzo che, nell’Italia del secondo dopoguerra, in una città toscana identificabile con Carrara, per poter riprendere in mano il timone della sua vita, risale a guisa di piccolo naviglio lungo la corrente degli anni trascorsi, fino alla prima infanzia.

Non è trascurabile che sempre nella nota introduttiva alla ristampa 2011 Tabucchi sottolinei lo speciale rapporto che lo lega al romanzo del 1978:

“Così, con quella libertà creativa che a una certa età si conquista, ho riaperto il libro e l’ho riletto. (…). Lasciati da parte i ricordi personali che questo Piccolo Naviglio porta sulla sua scia, ho cercato di capire di quale materia sia fatto, e mi è sembrato che le assi della chiglia appartengano allo stesso legno dei libri che lo hanno seguito negli anni. C’è la Storia con la maiuscola, scriteriata fanciulla che reca festosa lutti e iatture; la storia senza maiuscola del nostro paese, per il quale continuo a nutrire la nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere e non è, mischiata a un senso di colpa che non mi appartiene; la nostra lingua che ho cercato di difendere scrivendola. E soprattutto c’è il fenotipo di molti miei personaggi a venire: un personaggio sconfitto ma non rassegnato, ostinato, tenace. Fedele, come ha detto un poeta, “alla parola data all’idea avuta”. L’idea che noi siamo perché ci raccontiamo e che lui potrà esistere soltanto se riuscirà a raccontare la propria storia. Che è poi questo libro”.

Il tema dell’infanzia, al centro del romanzo del 1978, riaffiora di frequente nella narrativa di Tabucchi, come una sorta di fiume carsico, concentrandosi talvolta intorno a una singola immagine.

È il caso, in Lettera da Casablanca, nella raccolta di racconti Il gioco del rovescio del 1981, di una palma molto amata, svettante di fronte alla casa natale, abbattuta in seguito a un’ordinanza ministeriale.

Piace a Tabucchi trascrivere un passaggio della lettera di protesta scritta in quella occasione dalla madre:

“Per testimoniare dell’amore che i figli hanno per il suddetto albero basta dire che l’hanno battezzata e non la chiamano palma ma la chiamano Giosefine, dovuto questo nome al fatto che avendoli noi portati una volta al cinema in città a vedere Quarantasette morto che parla  con Totò, nel film luce si vedeva la celebre cantante nera francese col suddetto nome che ballava con un copricapo bellissimo fatto con foglie di palma, e allora i nostri bambini siccome quando c’è vento la palma si muove come se ballasse la chiamano la loro Giosefine”.

È tuttavia doveroso sottolineare che a marcare incisivamente l’intero percorso narrativo e saggistico di Tabucchi non è il tema in sé dell’infanzia ma una irriducibile ansia di giustizia coniugata a una implacabile denuncia del mercantilismo che inquina i rapporti sociali e in questa direzione altri sono i suoi referenti anche se il romanzo breve di Savinio, Angelica o la notte di maggio, riproposto nel 1978, può essergli stato in qualche misura soccorrevole.

Si assiste qui alla messinscena di una realtà in cui tutto è merce di scambio e il linguaggio irridente con cui è presentata la figura del protagonista, il ricchissimo banchiere tedesco Felix von Rothspeer, dal volto emblema della faccia “finanziaria”, la affilata ironia con cui sono descritti i suoi gesti quotidiani, il suo patologico dividersi tra il controllo delle oscillazioni  in borsa dei titoli delle sue azioni e l’inseguimento di Angelica, la povera attricetta di teatri di periferia, che sfugge ai suoi tentativi di comprarne l’amore, devono aver sollecitato una lettura non distratta da parte di Tabucchi all’altezza delle sue prime prove narrative.

In ogni caso il suo obiettivo è già allora la messa  a fuoco, senza attenuanti, delle mostruosità causate nel sociale dai dominatori di turno e in questa linea di pensiero scopre un insuperabile maestro in Francisco Goya, il grande pittore spagnolo al quale lo stesso André Breton, in occasione di una Mostra Internazionale del Surrealismo, tenutasi a New York  nel 1936, nella quale accanto alle opere dei surrealisti contemporanei, era esposto il ciclo grafico dei Capricci di Goya, non esitava ad attribuire la paternità del movimento da lui fondato a Parigi nei primi anni Venti – il manifesto è del 1924 – nonostante allora insistesse nel riconoscerne in Savinio e de Chirico i referenti più autorevoli.

Thea Rimini, in Album Tabucchi, sottolinea che Breton e i suoi compagnons de route consideravano Goya un loro antenato pittorico proprio in quanto “era riuscito a dipingere le turbe dell’inconscio” e, “se il destino glielo avesse concesso, Tabucchi non si sarebbe certo lasciato sfuggire l’occasione di visitare quella mostra”.

A sostegno della sua tesi la Rimini avanza parallelismi non del tutto condivisibili:

“Il Goya di Tabucchi è simile al Goya di Breton: un visionario, un artista del sogno. Insomma: uno straordinario surrealista ante litteram. Con in mente Breton, Tabucchi definisce il Capriccio ‘un corto-circuito fondato su un salto logico’ attraverso il quale ‘la logica viene meno, l’universo conosciuto diventa ‘altro’ e la realtà acquista un significato diverso’.[iii]

Di fatto non è tanto il Goya esecutore delle ottanta incisioni pubblicate nel 1799 con il titolo Capricci a incidere in profondità nell’immaginario di Tabucchi ma è soprattutto il pittore dei Disastri della guerra, del periodo 1810 – 1820, e delle Pitture nere della Quinta del Sordo, del periodo 1821 – 1823.

Le immagini dipinte dall’ultimo Goya, le sue sconvolgenti rappresentazioni della carne offesa dalle atrocità della guerra, le raffigurazioni mostruose di una società in cui dominano ingiustizia, intolleranza del diverso, soffocamento delle libertà individuali, invadono le pagine dei romanzi di Tabucchi in un andirivieni di passato e presente, di ricordi vissuti o solo immaginati, di sogni e allucinazioni.                                    

Al limite dell’ossessività torna l’immagine, dipinta nelle pareti della Quinta del Sordo, di un cane giallo simbolo di fatalità e di morte: lungo una linea curva che divide lo spazio tra la terra e il cielo si affaccia il muso di un piccolo cane giallo, semisepolto nella sabbia, che guarda verso l’alto dove due uccelli si muovono in libertà. [iv]

Sorprende che nella sua visita al Museo del Prado nel 1965, in occasione del primo viaggio in Spagna, Tabucchi non abbia dedicato alcuna attenzione a questo dipinto.

Nel racconto/intervista del 1995 a cura di Carlo Gumpert ricorda infatti senza incertezze che in quella occasione a monopolizzare il suo sguardo è stato il quadro Las Meninas di Velàsquez:

“Si può dire che io abbia davvero scoperto Las Meninas la prima volta che ho visitato il Prado (…). È quasi stata un’illuminazione perché all’improvviso, mi sono reso conto di trovarmi davanti al dipinto più misterioso del mondo, o per lo meno, della modernità; un mistero che però non si manifesta subito, ma si rivela invece mano a mano che si contempla il quadro: più lo si guarda e più misterioso diventa questo mistero, Come ci insegnano gli storici dell’arte, questa tela si basa sul concetto del punto di vista, sul modo di guardare e dell’essere guardati, e fa riflettere sul significato del guardare e dell’essere guardati. Penso che abbia provocato in me una specie di corto circuito che, curiosamente, mi ha indotto a riflettere su un altro grande artista, vissuto però nel nostro tempo, che ha scritto molto sul problema del guardare, e cioè Samuel Beckett. È stato allora che ho compreso la forza con cui Velàsquez era capace di essere moderno e di dialogare con l’uomo moderno. Quando, qualche tempo dopo, ho poi avuto occasione di vedere Film di Beckett, il dipinto mi ha intrigato ancora di più e ho sentito il bisogno di rivederlo. È un quadro inesauribile, perché più lo guardi più ti intriga, indipendentemente dalle sue qualità estetiche, che certo possiede e anche notevoli, ma non è questo il punto. Mi riferisco piuttosto all’aspetto concettuale che questo quadro implica. Allora ho capito che quel quadro che potevo contemplare all’infinito, senza esaurirlo, era il quadro che preferivo, era il mio quadro”.[v]

Successivamente, nella Nota definitiva al volume Racconti con figure, datata Lisbona gennaio 2011, nel corso di una riflessione sul rapporto scrittura/pittura, Tabucchi torna a concentrare l’attenzione sul quadro Las Meninas ma questa volta non trascura di richiamare Il cane giallo semisepolto nella sabbia:

“Spesso la pittura ha mosso la mia penna. Se in un lontano pomeriggio del 1970 non fossi entrato al Prado e non fossi rimasto “prigioniero” davanti a Las Meninas di Velàsquez, incapace di uscire dalla sala fino alla chiusura del museo, non avrei mai scritto Il gioco del rovescio. Lo stesso vale per l’enorme suggestione provata da bambino davanti agli affreschi del convento di San Marco, rivisitati spesso da adulto, che un bel giorno ritornò con prepotenza sbucando dalle pagine de I volatili del Beato Angelico. Ma anche alcune pagine di Tristano muore non esisterebbero senza il Cane sepolto nella sabbia di Goya. Dall’immagine alla voce la via può essere breve, se i sensi rispondono. La rètina comunica col timpano e “parla” all’orecchio di chi guarda; e per chi scrive la parola scritta è sonora: prima la sente nella testa. Vista, udito, voce, parola. Ma in questo percorso il flusso non è a senso unico, la corrente è alternata, riparte da dove è arrivata, torna là dove era partita. E la parola, tornando indietro, porta con sé altre immagini che prima non c’erano: le ha inventate lei. Così è per molti di questi racconti. Se l’immagine è venuta a provocare la scrittura, la scrittura a sua volta ha condotto quell’immagine altrove, in quell’altrove ipotetico che il pittore non dipinse. La storia provocata dal visibile ha afferrato il Ciò-che-si-vede per viaggiare a suo piacimento nel territorio che l’artista ci tacque, quello che avrebbe potuto dipingere o fotografare ma che elise. “L’anima si immagina quello che non vede”, dice Leopardi. Il territorio della scrittura è l’immaginazione che va oltre l’immagine; è il racconto delle scritture ma anche il loro rovescio e la loro moltiplicazione, il racconto dell’ignoto che le circonda”.

Al di là della predilezione dichiarata ancora una volta per Las Meninas, è fuori dubbio che Il cane giallo semisepolto nella sabbia sia il dipinto che più incisivamente e più a lungo agisce nel suo immaginario, talvolta in singolare associazione con la grande tela in cui Goya raffigura l’atto culminante della fucilazione a Madrid, il 3 maggio 1808, di cittadini spagnoli inermi da parte di un plotone di esecuzione degli occupanti francesi.

Grazie all’obliquità conferita alla scena, i soldati francesi, in controluce rispetto alla sinistra lanterna posata ai loro piedi, non lasciano scorgere i loro volti ma soltanto l’equipaggiamento, dai fucili ai cappotti alle sciabole, in un ordine ritmato che è emblema di una demente razionalità.

In piena luce è al contrario il gruppo delle vittime e in particolare l’uomo del popolo che sta per essere abbattuto dalla scarica imminente: con le braccia protese nell’atteggiamento della crocifissione, con le mani trafitte, questo spagnolo dai lineamenti grossolani assume la dimensione dell’eterno Ebreo, dell’Uomo umiliato dall’uomo.

L’associazione del dipinto della fucilazione a quello del cane giallo, quale si configura nel breve racconto Sogno di Francisco Goya Y Lucientes, Pittore e Visionario in Sogni di sogni, è funzionale alla messa in scena del male immanente nel meccanismo naturale, nel Tempo: la Storia si dipana cambiando gli attori ma conservando sempre le stesse terribili maschere.

Recita il Sogno:

“La notte del primo maggio del 1820 (…) Francisco Goya y Lucientes, pittore e visionario (…) sognò che con la sua amante della gioventù stava sotto un albero. Era l’austera campagna di Aragona, e il sole era alto. La sua amante stava su un dondolo, e lui la spingeva per la vita. La sua amante aveva un ombrellino di pizzo e rideva con risate brevi e nervose. Poi la sua amante cadde nel prato e lui la seguì a ruzzoloni. Rotolarono sulle pendici del colle, finché arrivarono a un muro giallo. Si affacciarono e videro dei soldati, illuminati da una lanterna, che stavano fucilando degli uomini. La lanterna era incongrua, in quel paesaggio assolato, ma illuminava lividamente la scena. I soldati spararono e gli uomini caddero coprendo le pozze del loro sangue. Allora Francisco Goya y Lucientes sfilò il pennello da pittore che teneva alla cintura e avanzò brandendolo minacciosamente. I soldati, come per incanto, sparirono, spaventati da quell’apparizione. E al loro posto apparve un gigante orrendo che stava divorando una gamba umana. Aveva i capelli sporchi e la faccia livida, due fili di sangue gli scorrevano agli angoli della bocca, i suoi occhi erano velati, però rideva.

Chi sei? gli chiese Francisco Goya y Lucientes.

Il gigante si pulì la bocca e disse: sono il mostro che domina l’umanità, la Storia è mia madre.

Francisco Goya y Lucientes fece un passo e brandì il suo pennello. Il gigante sparì e al suo posto apparve una vecchia. Era una megera sdentata, con la pelle di cartapesta e gli occhi gialli.

Chi sei? le chiese Francisco Goya y Lucientes.

Sono la disillusione, disse la vecchia, e domino il mondo, perché ogni sogno umano è sogno breve.

FGL fece un passo e brandì il suo pennello. La vecchia sparì e al suo posto apparve un cane. Era un piccolo cane sepolto nella sabbia, solo la testa restava fuori.

Chi sei? gli chiese Francisco Goya y Lucientes.

Il cane tirò fuori bene il collo e disse: sono la bestia della disperazione e mi prendo gioco delle tue pene.

Francisco Goya y Lucientes fece un passo e brandì il suo pennello. Il cane sparì e al suo posto apparve un uomo. Era un vecchio grasso, con la faccia bolsa e infelice.

Chi sei? Gli chiese Francisco Goya y Lucientes.

L’uomo fece un sorriso e disse: sono Francisco Goya y Lucientes, contro di me non potrai nulla.

E in quel momento Francisco Goya Y Lucientes si svegliò e si trovò solo nel suo letto”.

La tenace, ma cieca e affannosa lotta del cane per tenere la testa fuori dalla sabbia, si configura quale emblema della vana lotta delle singole vite che, senza aver commesso alcuna colpa, sono travolte negli ingranaggi di un meccanismo ineluttabile, nell’indifferenza suprema della Natura.

È questo il nodo nevralgico intorno a cui ruota il sistema di pensiero di Tabucchi.

Paradigmatico il romanzo Tristano muore. Una vita, pubblicato nel 2004, il cui movimento d’avvio è la trascrizione dei versi di una canzone da organetto, Rosamunda, nome caro al protagonista per essere quello di una donna amata.[vi]

Immediato riaffiora il ricordo di una visita in sua compagnia al museo del Prado, sulla spinta dell’irrinunciabile desiderio di mostrarle Il cane giallo semisepolto nella sabbia.

Segue una messa in scena in cui vicende del vissuto si intrecciano a riflessioni sull’arte:

“Avanzarono nella galleria deserta. Tristano faceva strada come un capogruppo di turisti senza turisti, e prese le scale. Lascia perdere il resto dei quadri, disse, non interessa, almeno per oggi non interessa, forse un giorno ci verrai da sola in questo museo e guarderai la bellezza, che sarà la tua primavera sfiorita, ma oggi andiamo dal cane giallo, lo senti come guaisce?, credo che muoia di sete, diamogli da bere, chissà quanta gente gli passa davanti tutto l’anno, lo guarda con l’indifferenza con cui si guarda un cane e non gli dà neppure quella goccia d’acqua di cui avrebbe bisogno, ma oggi è il giorno adatto, non c’è anima viva, e forse anche il guardiano della sala si è addormentato sulla sua seggiola, se io fossi il direttore di questo museo imporrei che davanti a quel cane ci fosse sempre una ciotola di acqua fresca, ma i direttori dei musei ignorano i desideri dei loro quadri, fanno solo il loro mestiere, non gliene frega niente che il cane continui a soffrire per sempre, come volle il pittore … Il guardiano dormiva, come aveva previsto Tristano. Entrarono, e il cane guardò con gli occhi imploranti di un piccolo cane giallo sepolto nella sabbia fino al collo messo lì a soffrire affinché si sappia per saecula saeculorum qual’è la sofferenza delle creature che non hanno voce, che poi siamo tutti noi, o quasi”.[vii]

La rievocazione della visita al Museo del Prado mette in moto un succedersi di flashback lungo un filo che via via si moltiplica in tanti fili per cui il vicino e il lontano, l’ora e l’allora, il sogno e la realtà, si intrecciano caoticamente e, sempre più di frequente, tornano in presenza immagini legate agli anni dell’immediato secondo dopoguerra:

“Tristano stava appoggiato alla sua motocicletta, vicino a un chiosco di giornali, e gli pareva che l’Italia fosse guarita, e con lei il mondo, e canticchiava nostra patria è il mondo intero nostra legge è la libertà e anche in lui la vita ricominciava (…). Era il maggio del quarantacinque, me lo ricordo come se fosse ora.

Sai invece quando tutto gli fu chiaro? Quando tutto pareva già chiaro ed era già finito, il sei agosto del quarantacinque. Alle otto e un quarto del mattino, se vuoi sapere anche l’ora.

Quel giorno Tristano capì che il mostro ormai vinto stava lasciando spazio alle mostruosità dei vincitori (…). Quel mattino la prima atomica utilizzata come arma di distruzione di massa cadde su una città del nostro mondo annientandola e incenerendo duecentomila persone.

(…) Agli americani per piegare il Giappone sarebbero bastate le armi convenzionali: (…) in quel modo fecero capire al mondo che i nuovi padroni erano loro … la Storia è una creatura glaciale, non ha pietà di niente e di nessuno”.[viii]

In explicit di Tristano muore riaffiora ‘salvifico’ il tema dell’infanzia, con leggibile rinvio alle ultime parole tracciate da Antonio Machado in un minuscolo foglio casualmente ritrovato nelle sue tasche al momento della morte:

“Quei giorni azzurri e quel cielo della memoria”,

dove palpabile è l’amarezza dello stesso Tabucchi per una morte che, come l’amato poeta spagnolo, avverte di dover consumare lontano dai luoghi dove ha trascorso l’infanzia.

Non a caso concede al suo Tristano di prendere congedo dalla vita nella casa natale di Malafrasca:

“Sono ritornato qui per andarmene, dove sono nato, per sentire le mie cicale, quelle che ascoltavo da bambino in certi pomeriggi estivi in cui mi mandavano a fare la siesta e io mi intrattenevo con le cicale, e leggevo i libri che mi avrebbero spiegato il mondo, come se il mondo si potesse spiegare nei libri … Sogni …”.

La presa d’atto del fallimento della scommessa degli anni giovani sulla efficacia della letteratura nel tentativo di cambiare il mondo non scalfisce tuttavia il convincimento che la letteratura sia un’avventura conoscitiva in sé: lo scrittore non è un documentarista, non restituisce i fatti, ma la temperatura di un’epoca, cercando alimento in una realtà filtrata, simbolica.

Non è trascurabile che nel 2006, nel saggio Epilogo e congedo dal lettore, in chiusura della raccolta Interventi civili e politici, Tabucchi prenda risolutamente distanza da qualsiasi forma di intervento diretto sul presente:

“Misurarsi con la vita può far male, specie se lo si fa senza eccessive mediazioni letterarie o romanzesche. Lo hanno fatto altri scrittori in passato e l’ho fatto a lungo anch’io, come queste pagine testimoniano. Ma non lo si può fare per sempre. È giusto che uno scrittore, a un certo punto, ceda il testimone della visione diretta della realtà e riprenda i suoi strumenti più consoni. È quello che faccio, chiudendo questo libro”.[ix]

E nel suo Elogio della letteratura, in apertura del volume Di tutto resta un poco, pubblicato postumo nel 2013 nella collana feltrinelliana “Le Comete”, riprendendo una dichiarazione dell’amato Fernando Pessoa, secondo cui “La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta”, Tabucchi sottolinea che, essendo entrambe il territorio del possibile e della libertà assoluta, offrono la possibilità di un di più rispetto a ciò che la natura concede e in questo di più è inclusa l’alterità, la possibilità di uscire da se stessi e diventare ‘altri’.

Di qui le sue incursioni in spazi culturali i più lontani e diversi, dalla musica popolare alla musica colta, dal cinema alla fotografia, dalle arti figurative all’astrattismo, seguendo le curve degli stili, alto e basso, comico e tragico, sulla spinta di una aspirazione a uscire dal tempo lineare, entropico, per entrare in un tempo intenso e simultaneo dove vicendevole è lo scambio tra il prima e il dopo.    

Torna alla mente Alberto Savinio, il poliedrico artista con cui si è avviato questo studio, il quale nella introduzione alla riproposta nel 1944 delle opere di Luciano di Samosata, nella traduzione di Luigi Settembrini, dopo aver definito “moderno ogni spirito (…) cosciente della propria autonomia mentale che liberamente e spassionatamente contempla intorno a sé il mondo sdivinizzato”, chiude la sua riflessione con un impietoso sguardo sulla attualità:

“Nel mondo letterario di oggi la congiura del silenzio si stringe con altrettanto tenace proposito di soffocamento intorno ai pochi, ai pochissimi, all’unico scrittore di mente chiara che illumina di sé la selva buia; perché costui, sebbene animato verso il prossimo di sentimenti cristianissimi, è incongregabile per suo destino e le compagnie, le quali si formano per spirito di complicità, non tollerano in mezzo a loro chi per suo natural talento scioglie la complicità, chiarisce l’equivoco, sventa il trucco e per i complici è un’accusa e un pericolo: non tollerano colui che disgrega le massonerie. Anche Luciano appartiene alla specie dei cosiddetti “intelligenti”, alla categoria dei “disgregatore di massonerie” ossia è una specie che per gli altri, e soprattutto per gli altri “scrittori” non dovrebbe esistere. Non sentiamo proclamare quotidianamente che l’intelligenza è nociva, che l’intelligenza è deleteria, che l’intelligenza va distrutta? A che stupire se anche Luciano si tentò di distruggerlo…”.[x]

E ‘a che stupire’ se si ritiene che nel profilo di Luciano di Samosata tracciato da Alberto Savinio sia da leggere la radiografia di un narratore, saggista e drammaturgo, non in linea con il proprio tempo quale Antonio Tabucchi, “studioso privo di remore e di accomodamenti, tagliente come il diamante” – secondo una definizione che di sé stesso egli rilascia nel 1985 tra le righe del racconto Il rancore e le nuvole – sul quale ancora oggi permangono reticenze e silenzi?

Non v’è dubbio che nel tentativo di cogliere una dimensione spazio/tempo di per sé inafferrabile, per cui nessun tema è importante in sé ma conta soltanto il modo di farlo vivere nelle proprie pagine, Tabucchi si è di fatto impegnato, lungo l’impervio crinale tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo Millennio, in una sfida temeraria con la conseguenza di un invincibile disagio nel vivere la soffocante quotidianità di un presente in cui vede specchiarsi la tragica realtà di sempre.

Emblematica una scena della sua pièce teatrale del 1988, I dialoghi mancati:

Mi affaccio alla finestra,

c’è la città …

e il mondo.

Ma non sentite il rumore?

Sono i cannoni che brontolano,

la distruzione, la morte

che sopra di noi incombono,

volute dagli uomini savi.


Note

[i] Scrive Paolo Mauri nella introduzione alla Opera omnia di Tabucchi nei Meridiani Mondadori, 2018, p. XIV:

“Gli anni della formazione coincidono con le discussioni sulla nuova avanguardia e con la ripresa di esperimenti letterari spesso ispirati al gioco combinatorio. Lo stesso Tabucchi si occupa dei surrealisti portoghesi per la sua tesi di laurea, ma sono esperienze che incidono solo marginalmente sul Tabucchi scrittore”.

[ii] Il titolo Notturno indiano è un titolo ambivalente. (…). È ‘notturno’ perché sceglie la dimensione onirica e si svolge principalmente di notte, ma è ‘notturno’ perché è un omaggio alla forma musicale che porta lo stesso nome e con la quale condivide struttura e tematiche. Il mio libro è una breve sonata eseguita in sordina da uno strumento solista, allo stesso modo in cui il notturno si esegue solitamente al piano; e inoltre c’è un certo gusto per l’epoca e lo stile da cui proviene questa forma musicale, ovvero il romanticismo. Il ‘notturno’ è una forma musicale evocatrice, onirica, e il mio Notturno indiano, in un certo senso, è allo stesso modo un desiderio – il desiderio di ritrovare una persona scomparsa – e una speranza. Con tonalità profondamente malinconiche”.

[iii] Thea Rimini, Album Tabucchi, Palermo, Sellerio Editore, 2011, p. 309. Di seguito il testo originale francese:

“un court-circuit fondé sur un saut logique” attraverso il quale “la logique se défait, l’univers connu devient “autre” et la réalité acquiert un sens différent”. E chiosa: “Voilà pourquoi Goya fascina Breton et les surréalistes”.

[iv]Può in qualche misura sorprendere che, sia pure con finalità del tutto diverse, Tabucchi introduca la figura di un cane giallo nel romanzo Il piccolo naviglio, come ricorda nella stessa nota introduttiva alla ristampa del volume nella edizione Feltrinelli del 2011:

“Certo il luogo e la circostanza in cui Capitano Sesto cominciò a raccontare non erano le più propizie alla ricostruzione storica. Era infatti un pomeriggio di tarda estate e lui se ne stava seduto sul muretto di un sagrato polveroso abitato da un cane giallo, in attesa di una corriera ballonzolante che lo avrebbe portato lontano. La corriera, come era sua abitudine, ritardava, il pomeriggio caldo e silenzioso invitava al sonno, il cane giallo si era acciambellato sulla porta della chiesa e il paese riposava sotto un velo di polvere”.

[v] Carlos Gumpert, Conversationes con Antonio Tabucchi, Barcelona, Anagrama, 1995

[vi] A. Tabucchi, Tristano muore.  Una vita, in Opere, Meridiani, Milano, Mondadori, 2018

[vii] Di seguito la prosecuzione del testo citato: La Guagliona lo guardò. Poi si girò su sé stessa, appoggiò un braccio sulla parete e sul braccio appoggiò la testa. È insopportabile, disse, non si può guardare. Sta solo facendo le sabbiature, disse Tristano, il pittore gli ha ordinato di fare le sabbiature. Ti prego, non dire altro, disse lui. Tu credi che l’elettrochoc nei manicomi sia meglio?, disse lui, sai, era un piccolo cane sperso, certamente trovatello, figlio di enne enne, girava per le periferie, aveva una sacca a spalle, un boccone di pane, dormiva dentro scatole di cartone, non andava neppure dal barbiere per cani, insomma era proprio out, e così il pittore pensò di fare una cosa utile per la società e per il suo principe, passò con il laccio della sua tavolozza, lo accalappiò e lo sotterrò nella sabbia fino al collo, così impari, cane vagabondo, ora non potrai più mordere nessuno, il quartiere è tranquillo, i cittadini dormono in pace e il monarca è felice. Era cattivo, disse Rosamunda, era un pittore cattivo. No, era buono, la corresse Tristano, era cattivo solo con sé stesso, era un cane sciolto. C’era un’aria greve in quella sala che sapeva di muffa e di fiati del giorno prima. Almeno ci fosse l’aria condizionata, disse lei. Fammi il piacere, Rosamunda, disse Tristano, questa è la Spagna d’oggidì. Al Caudillo non gliene frega niente della modernità, e neppure di voi americani, lui sta pensando a difendere l’Occidente dal comunismo, come vedrai dirà qualcuno prima o poi, cosa vuoi che gliene freghi dell’aria condizionata, lui si contenta del fresco delle sacrestie. Si sedettero per terra. (…). Tristano andò a mettersi sotto il cane giallo, piegò le braccia e le ginocchia come una marionetta a cui hanno tagliato i fili. (…). Poi si raddrizzò e si mise sull’attenti davanti al cane. Comandante Clark, disse, ti ho portato l’acqua che ti mancava. Alla cintura reggeva una calabalza, quelle zucche secche e vuote che i pastori della Castiglia usavano per mantenere l’acqua fresca, la depositò davanti al quadro, arretrò e fece un saluto militare”..[vii]

[viii] Ivi p. 291

[ix] Il suo profilo di ostinata e vigile sentinella del libero pensiero resta tuttavia in singolare sintonia con la funzione dell’intellettuale tracciata da Maurice Blanchot:

“Ritraendosi dal politico, non se ne distacca, ma cerca di conservare questo spazio di ritirata e questo sforzo di ritiro per profittare di questa prossimità che lo allontana al fine di installarvisi, come una sentinella che non è lì che per sorvegliare, tenersi sveglio, e attendere con un’attenzione attiva in cui si esprime meno la preoccupazione di sé stessi che la preoccupazione per gli altri”.

[x] Luciano. Una storia vera e altre opere scelte da Alberto Savinio,I° ed. Milano, Bompiani, 1944. Ora Milano, Adelphi, 2018

Rosita Tordi Castria