Piero Gobetti e Giacomo Debenedetti nella Torino del primo dopoguerra

“Mattini all’Università di Torino, dei quali posso testimoniare di persona: sotto i portici del cortile, vaporassero le nebbie dell’inverno col loro sapore di seltz, o il sole degli aprili e dei maggi levigasse di ceruleo le colonne, o fiammeggiasse quello estivo sui giorni d’esame, chi ora con la macchina del tempo potesse tornare a quei mattini sentirebbe di che cosa si discorreva. Croce e Gentile, Gentile e Croce, il grande duello”.

E’ un passaggio di Probabile autobiografia di una generazione, il saggio che Giacomo Debenedetti scrive per la riedizione, a venti anni di distanza, della prima serie dei Saggi critici del 1929.

Alcuni di quei saggi, Proust e Cauto omaggio a Radiguet, erano già stati pubblicati nel 1925 nella rivista di Piero Gobetti, “Il Baretti”, il mensile di critica letteraria e estetica destinato ad affiancare dal dicembre 1924 il settimanale di carattere eminentemente politico, “La Rivoluzione liberale”, fondato nel febbraio 1922, che tra i suoi collaboratori annovera Antonio Gramsci.

Non v’è dubbio che intorno all’attività di Piero Gobetti, nella Torino intellettuale e operaia che sta maturando il suo “no” al fascismo, aperta alla cultura internazionale, si costituisca per i giovani intellettuali un polo d’attrazione importante.

La casa editrice, Piero Gobetti editore, fondata nel 1923, pubblica opere che diventeranno centrali nel dibattito culturale: dagli scritti di Luigi Einaudi a un volume dedicato a Giacomo Matteotti, dagli Ossi di seppia di Eugenio Montale a Amedeo e altri racconti di Giacomo Debenedetti.

Merito non secondario di Gobetti è di aver posto la questione intellettuale come problema eminentemente politico, essenziale per la selezione della classe dirigente di un sistema paese che sia fondato su Libertà e Giustizia, vale a dire su un’idea di libertà come eguaglianza di fronte alle leggi, negazione di privilegi, educazione a un costume civile e tollerante, in una contemperanza dei valori di Individuo e Stato.

Il sodalizio tra Debenedetti e Gobetti è intenso ma inevitabilmente breve, dal momento che quest’ultimo, in seguito alle intimidazioni e alle percosse fasciste, nel 1925 è costretto a lasciare l’Italia per trasferirsi a Parigi, dove morirà l’anno successivo.

Ad avvicinare i due giovani, nati entrambi nel 1901, è una affinità che li porta a porsi gli stessi interrogativi, da cui un’amicizia fraterna non priva tuttavia di punte polemiche, particolarmente da parte di Gobetti il quale non esita a rimproverare all’amico di voler fare della critica un algoritmo, di peccare in definitiva di astrattezza, l’insidioso nemico segnatamente dei giovani intellettuali.

E il rilievo non deve essere troppo dispiaciuto a Debenedetti la cui devozione all’amico non conosce incrinature.

Sempre in Probabile autobiografia di una generazione, ravvisa in Gobetti l’esempio di tutti i “noviziati eroici”: “Non posso dire che già si svolgesse, entro di lui, il dialogo con la morte imminente; piuttosto il suo dialogo con la vita si svolgeva a battute acceleratissime”.

Non v’è dubbio che dalla prospettiva dell’epilogo Debenedetti dissemini tracce luminose per un penetrante ritratto di Gobetti: “Il coraggio è soprattutto il fenomeno di una coscienza salita al punto da avventurarsi verso ciò che per altri è ancora buio, ma per lei è già entrato nel cono di luce. Uno osa quando non ce la fa più dove si trova, quando sente ormai di farcela dove andrà. Il merito, semmai, è di saper sollecitare questo quando”.

E il merito di Gobetti in questa direzione è indiscutibile: ha sentito di farcela e si è messo subito in gioco a viso aperto contro il nascente fascismo e contro ogni tipo di totalitarismo, ferma restando la sua consapevolezza che l’educazione alla libertà, perché possa diventare patrimonio comune, necessiti del sostegno, come alleato, di un grande movimento politico popolare.

Rosita Tordi Castria

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