Ezra Pound

Migrazioni. Incontri tra lingue, letterature e arti

‘Esuli’ americani. Il caso Ezra Pound ‘visto’ da Eugenio Montale

Tra i movimenti letterari d’avanguardia che affollano il quadro culturale europeo del primo Novecento un rilievo non trascurabile spetta a Imagismo e Vorticismo, promotore più autorevole Ezra Pound, il poeta dei Cantos.

Esule volontario dagli Stati Uniti d’America in Europa: a Londra dal 1908 al 1920, quindi per un quinquennio a Parigi da dove si trasferisce nel 1925 in Italia, a Rapallo.

Travagliatissima la sua vicenda esistenziale a partire dal 1945 quando, in seguito alle sciagurate scelte politiche, dal consenso pubblicamente manifestato a Mussolini alla decisione di ostacolare l’entrata in guerra degli Stati Uniti accanto alle potenze alleate per liberare l’Europa dal totalitarismo nazifascista, è arrestato nell’aprile dai partigiani e consegnato ai militari statunitensi i quali, con l’accusa di tradimento, lo trasferiscono in un campo di prigionia nelle vicinanze di Pisa e successivamente a Washington per sottoporlo a processo.

Giudicato infermo di mente è internato in un manicomio criminale fino al 1957 quando, concessagli la libertà, può tornare in Italia, a Venezia, dove muore nel 1972.[1]

Non v’è dubbio che nell’opera di Pound, in verso e in prosa, giochi un ruolo importante il nesso politica / cultura e il convincimento della opportunità di riallacciare i fili da tempo interrotti del dialogo tra l’antico Oriente e l’Occidente, in particolare tra la Cina di Confucio e la Roma repubblicana.

Tessera minore ma non del tutto trascurabile in questa direzione è la  stessa breve collaborazione di Pound, in un anno cruciale nella storia europea qual è il 1938, alla rivista mensile “Broletto”, fondata nel 1935 a Como da Carlo Peroni, collezionista e critico d’arte milanese, e da Alberto Savinio, il quale ne è stato il direttore nella prima annualità.

Nel biennio 1937 / 1938 è il cofondatore stesso a assumere la direzione del mensile e tra le sue iniziative, a partire dal gennaio 1938, è da annoverare la rubrica Servizio di comunicazioni la cui conduzione è affidata a Pound. [2]

La linea programmatica concordata per la nuova rubrica è richiamata in una circolare redazionale, in inglese, il cui incipit recita:

«Con l’istituzione di una rubrica denominata “Servizio di comunicazioni” Broletto intende dare ampia notizia di pochi e selezionati libri stranieri che non hanno ricevuto un’adeguata attenzione da parte della stampa commerciale dei propri Paesi e, in ogni caso, di opere che rivelano un particolare interesse per la loro forza provocatoria o che posseggono un valore permanente».

Quel che immediatamente sorprende, proprio in quanto in netta antitesi ai canoni della cultura di regime, è l’apertura internazionale della rubrica e al contempo la disistima manifestata per la letteratura italiana, eccezion fatta per Dante, verso il quale la devozione di Pound non conosce tentennamenti fino dagli anni della sua formazione negli Stati Uniti.

Scriveva già nel 1906 alla madre: «Trovami un fenomeno importante nella vita degli uomini o delle nazioni che non si possa misurare col metro dell’allegoria di Dante».

E subito dopo una promessa: «Continuerò a studiare Dante e i profeti ebrei».

Promessa alla quale Pound non è mai venuto meno.

Della sua tassativa chiusura nei confronti della letteratura italiana successiva a Dante una indiretta conferma si può cogliere nella stessa domanda che rivolge al direttore di “Broletto” in una lettera del 31 marzo 1938:

«Mi manda per MIA propria informazione una listina degli scrittori italiani VIVI che LEI legge?», dove la stessa grafia in stampatello maiuscolo di ‘mia’, ‘vivi’, ‘lei’,  denuncia una corrosiva ironia.

Innegabilmente infastidita la risposta di Carlo Peroni: «Mi chiede una lista degli scrittori italiani che io leggo? Bontempelli, Moravia, Zavattini, Palazzeschi, e gli altri amici che talvolta collaborano a “Broletto”.

Pesca magra come vede, ma non c’è di meglio, almeno per me».

Il direttore di fatto non farà mancare il suo consenso alla conduzione poundiana della rubrica pur non rinunciando a cauti rilievi:

«Sono molto soddisfatto del Suo articolo su Frobenius che oltre ad essere molto intelligente effettivamente comunica ai lettori un settore quasi completamente sconosciuto. Sarebbe molto interessante avere spesso collaborazioni per il nostro Servizio di Comunicazioni che uscissero dal campo puramente di critica letteraria».

È assai probabile che il suggerimento di Peroni abbia infastidito Pound il quale peraltro nel condurre il Servizio di comunicazioni si è sempre spinto ben oltre un ambito specificatamente letterario, commissionando contributi a collaboratori di discipline diverse.

E’ il caso della musicologa americana Olga Rudge presente nel fascicolo di gennaio con l’articolo, ll processo microfotografico nello studio della musica inedita, in cui è richiamata l’attenzione sulle nuove possibilità che la microfotografia offre per la diffusione dei testi originali della musica strumentale antica, e nel fascicolo di giugno La musicologia britannica in cui al centro della riflessione sono le undici sonate di William Young, stampate per la prima volta nel 1653, e le dodici sonate di Henry Purcell del 1683.

Sulla scrittura ideogrammica e in generale sulla cultura cinese, oltre alla giornalista siciliana Lina Caico, che firma il lungo scritto Gli albori della parola e dell’arte nei caratteri cinesi, destinato al fascicolo di febbraio, si cimenta lo stesso Pound con Significato di Leo Frobenius  nel fascicolo di aprile, Binyon in quello di ottobre e  Orientamenti nel fascicolo di dicembre.[3]

All’orientalista Leo Frobenius, avvicinato fino dagli anni londinesi, l’autore dei Cantos riconosce il merito di aver proposto un metodo per lo studio intelligente della storia basato sull’idea che «coll’oscurantismo e l’offuscamento del significato delle parole, della terminologia, decade la percezione delle frontiere e il limite nella forma plastica e nel dominio morale”.

Di qui il richiamo alle ragioni che hanno presieduto alla nascita del Vorticismo su cui si diffonde l’ultimo contributo, Orientamenti,  una sorta di summa del pensiero poundiano:

«Io so che il Vorticismo a Londra nasceva dalla determinazione di Wyndham Lewis, Henry Gaudier e del sottoscritto di andare in fondo, di ritrovare le basi d’un’arte sana».

E poco dopo:

«Io credo che tutta la propaganda per la Section d’Or fu regola delle proporzioni nell’architettura romanica d’ispirazione analoga. Non conoscevamo allora il trattato di Pier della Francesca Prospectiva pingendi ma l’avevamo accettato per scrittura sacra, come abbiamo onorato gli studi del Dürer. Mancando nel 1913 una musica creata in questo spirito, omettevamo la musica dalle nostre manifestazioni, pur affermando il bisogno d’un nuovo approfondimento nella conoscenza musicale, ed aspettando musici e compositori disposti a farlo».

Quindi l’idea ossessiva intorno alla quale si è andato avvitando il pensiero di Pound:

«Un senso mercantile dominava (…).

Io mi accorgo della malattia non come economista ma come critico d’arte osservando la decadenza putrida dell’ornamento architetturale a Londra.(…).

Il pensiero di un’analisi comprendente una corrispondenza economico-sociale mi arrivava ben più tardi».

Piace quindi a Pound sottolineare come gli stessi Dante e Shakespeare siano stati entrambi “davvero preoccupatissimi dell’etica e della giustizia economica. Dimensione che distingue la grande letteratura, la letteratura profonda, da quella scadente”.

E a conclusione di Orientamenti una esibita presa di distanza dalla stessa  letteratura francese contemporanea:

«Il vortice del pensiero non si concentra più in Francia. Preoccupati e impigriti in vecchie abitudini, i letterati persistono a cercare un vortice in certe forme letterarie che furono le principali e vitali forme ottant’anni fa, cioè nei romanzi, invece di cercarlo nei decreti legge, nei paragrafi vivi dei discorsi, o magari sparso in libri di esposizione storico – economica. Dobbiamo ammettere che un libro di storia, anche di second’ordine, vale più d’un romanzo di terz’ordine. Una pagina di prim’ordine vale più di un romanzo di second’ordine. Una frase illuminata come “disciplinare le forze dell’economia ed adeguarle alle necessità della Nazione vale più d’un romanzo fiacco, imitato da un modello esotico o seguendo debolmente un’imitazione di Flaubert, purtroppo già ammesso nell’elenco dei “classici autoctoni”.

Sotto qualsiasi forma verbale, il pensiero vivo vale infinitamente più del pensiero morto e imbalsamato. Questo è un problema di legge dell’estetica».

Non v’è dubbio che se con il suo Servizio di comunicazioni, pur nel breve spazio di un anno, Pound è riuscito a mettere in circolo nell’asfittico panorama culturale italiano idee non in linea con la cultura di regime senza restare intrappolato nelle strette maglie della censura è unicamente in virtù del ‘lasciapassare’ dello stesso Mussolini, al quale ha manifestato il proprio consenso fino dal suo arrivo in Italia nel 1925. [4]

Inevitabile contropartita la progressiva presa di distanza da parte di quegli stessi intellettuali che gli si erano all’inizio avvicinati ammirando in lui, al di là dello sperimentalismo linguistico di cui dà prova nei Cantos, lo scopritore di talenti, quali Thomas Eliot e James Joyce. [5]

E’ il caso di Eugenio Montale:

«Si, sono stato più volte da Pound a Rapallo; poi lui venne più volte a Firenze. Al ritorno l’accompagnai ancora a Rapallo e mi dedicò le Personae incidendo, diciamo, quel suo … aveva un anello cammeo, c’era un rilievo con il suo profilo mi pare inciso da Gaudier Brzeska e lui viaggiava sempre con la ceralacca e naturalmente i fiammiferi: allora riuscì a sciogliere questa ceralacca e ad imprimere una sua dedica… la sua faccia e l’anello sul libro, sulla raccolta delle sue poesie Personae. (…).

Più tardi i nostri rapporti non dico che si siano del tutto raffreddati, ma entrarono in una fase di letargo perché Pound aveva delle opinioni politiche non diciamo diverse dalle mie, ma diametralmente opposte. Io avevo firmato il manifesto antifascista di Benedetto Croce; Pound dichiarava invece ammirazione per il fascismo. L’Italia che amavamo era un’altra e faceva tutt’uno con le verità dell’Europa, del mondo civile. Inutile ricordare adesso le sopraffazioni e le minacce che dovemmo subire. Ma insomma, per quel che mi riguarda, nel 1939 fui estromesso dall’incarico al Gabinetto Viesseux. Devo aggiungere che i frequenti viaggi all’estero, in quegli anni, mi avevano aiutato a sviluppare un mio “cosmopolitismo”, tale da rendermi meno aspre interiormente certe ripercussioni locali o nazionali del nostro antifascismo». [6]

E già in una lettera a Svevo, del 22 agosto 1927, da Firenze: «Io parlavo giorni fa con un poeta americano molto amico di Joyce ed Eliot, il poeta Ezra Pound al quale Ella deve farmi il favore di mandare Senilità che ammira attraverso il sentito dire dei cenacoli. (Indirizzo: Via Marsala, Rapallo); e questo Pound che passa per un genio (Eliot gli ha dedicato un poema) mi dice corna del mondo anglosassone e un mondo di bene del nostro mondo. – Anche Bobi è ammiratore di Pound. Chi si orizzonta più?». [7]

Le divaricanti scelte politiche non condizioneranno tuttavia il giudizio montaliano sui Cantos .

In un breve saggio del 1949, Fronde d’alloro in manicomio, scritto in occasione di un premio, piuttosto discusso, attribuito ai Pisan Cantos, Montale non esita infatti a entrare nell’agone per stigmatizzare letture condizionate dalle scelte politiche del poeta e avanza la tesi che è stato soltanto per una forma di inguaribile narcisismo che Pound si è lasciato andare a dichiarazioni paradossali da cui gli inevitabili fraintendimenti e il progressivo isolamento dalla realtà sociale in cui gli è capitato di vivere. [8]

Recita la perorazione montaliana:

«La cronaca dice che undici suoi poemetti hanno vinto il premio Bollinger per la miglior lirica del ’48, e che l’onorifica distinzione gli è stata decretata da una giuria in cui figuravano T.S.Eliot, Allen Tate e altri illustri poeti d’oggi. Non conosco i Canti pisani e non credo affatto che essi siano undici poemetti indipendenti l’uno dall’altro. Deve trattarsi piuttosto di una ennesima porzione di quei Cantos che nel disegno dell’autore dovevano toccare il numero di cento e dei quali almeno i primi trenta furono scritti a Rapallo prima della guerra.

Poesie di un pazzo? Neppure per sogno, a meno che non si vogliano considerare come pazzi i tre quarti degli scrittori d’avanguardia contemporanei. L’opinione corrente è che Ezra sia stato considerato pazzo per salvarlo dal carcere perpetuo o dalla pena di morte. Non era e non è un pazzo autentico, ma solo un caratteristico tipo di esule americano. (“Exiles” era il titolo di una rivistina che a lui faceva capo, molti anni fa). Ricordate la posizione spirituale del primo Hemingway, quello delle scene parigine di Fiesta? È la posizione che ha suggerito anche il titolo di una sinfonia per jazz di Gershwin: Un americano a Parigi. Da Whitman, che peraltro non andò a Parigi, fino a Henry Miller, la catena dei cittadini che protestano contro la civiltà meccanica degli Stati Uniti e celebrano la vita degli istinti non si è mai interrotta. Ezra Pound è stato per un pezzo il capo riconosciuto di questi esuli. Al movimento che egli fondò, l’imagismo, la poesia moderna, non solo americana, deve l’acquisto di una libertà di ritmi e di musiche che in lui fu sempre sostenuta da un profondo ritmo vitale ma che nei numerosi imitatori divenne ricetta e anarchia. “Miglior fabbro” l’ha chiamato T.S. Eliot, dedicandogli le prime sue poesie, che in effetti gli devono qualcosa. E James Joyce, il cui influsso sui Cantos non può essere trascurato, non nascose mai la sua sincera ammirazione per Pound. Singolari incontri di temperamenti tanto diversi. Nessuno di noi potrebbe immaginare un Eliot o un Joyce che si mettessero al servizio di un dittatore e, in tempo di guerra, si trasformassero in complici e propagandisti dei nemici del loro Paese. Quei ribelli, quegli esuli, erano (dico erano perché uno è morto) uomini solo apparentemente sradicati, fuor di squadra. Joyce aveva una patria, la filologia, che è storia sotto forma di verbo e non ammette totali eversioni; Eliot tendeva a una patria terrena, l’Inghilterra, e non tardò a scoprirla. Ma a Ezra, spirito quasi puerile, non era possibile che la rivolta, e nulla è più penoso della rivolta di un vecchio (Marinetti insegni). In Italia egli aveva trovato il suo soggiorno ideale; non dico la sua patria perché l’Italia prefascista, l’Italia democratica non gli piaceva, e l’Italia fascista non eseguiva i suoi precetti in fatto di economia e di agricoltura. Il bimetallismo e la coltura integrale delle arachidi erano i due chiodi della riforma ch’egli avrebbe voluto imporci. Inoltre, egli non credeva affatto nella pretesa rinascenza dello spirito italiano nel campo dell’arte e delle lettere. In vent’anni non era mai riuscito a imparare decentemente la nostra lingua, ma ciò non gli impediva di sostenere che la poesia italiana era finita con Guido Cavalcanti, poeta del quale egli dette una edizione critica che i competenti giudicano mostruosa. Pretendeva di conoscere a fondo il provenzale ma una sua conferenza sull’argomento, tenuta a Firenze, in palazzo Vecchio, tolse quell’illusione ai suoi stupefatti ascoltatori. Musicista, aveva scritto versi e musica di un melodramma in un atto, Francois Villon, che non so se sia stato mai rappresentato. Che cosa amava Ezra del nostro paese? È difficile dirlo. Firenze gli sembrava una città di cartapesta. Venezia, suo vecchio amore, non gli diceva più nulla. Roma gli faceva orrore: solo a Rapallo, da lui definita “umbilico del mundo”, egli si trovava a casa sua. Là, affettuosamente servito dalla buona e fedele signora Shakespear, sua moglie, Ezra componeva a macchina quei Cantos che dovevano essere insieme poema epico e lirica, storia e leggenda. Aveva bisogno di pretesti italiani: ecco tutto». [9]

È palpabile la trepidazione di Montale nel disegnare il profilo di un poeta di cui è costretto suo malgrado a portare all’evidenza i tratti quanto meno ‘risibili’ del temperamento.

Non è casuale che, quasi a farsi perdonare l’asprezza del giudizio, non esiti poi ad accostare Pound al poeta inglese che più gli è caro: «In ciò la sua situazione di scrittore non era lontana da quella di Robert Browning, un poeta narratore ch’egli aveva finito per stimar molto. Era come un musicista che musicasse uno sterminato “libretto” del quale in fondo non gl’importava nulla. E di questo libretto l’Italia era un ingrediente dei più importanti».

E qui il richiamo al teatro d’opera si direbbe un escamotage per far passare l’adesione di Pound al fascismo come una sorta di inconsapevole ‘messinscena’ piuttosto che una scelta meditata:

«La verità è che, passati gli anni, gli esuli si erano più o meno sistemati. Alcuni erano morti, un altro maturava per il premio Nobel, altri ancora figuravano nell’elenco dei best sellers d’oltremare. Anche i rivoltati inglesi del 1930 stavano mettendo la testa a posto; più d’uno, come Auden, finì addirittura per prendere la cittadinanza americana. Ingenuo come un fanciullo, Ezra Pound fu colto dalla guerra sul suo bel terrazzo di Rapallo, in riva al mare. Il mondo era cambiato ed egli non se n’era accorto. Anche Rapallo s’era svuotata. Da anni era tornato in Irlanda W.B. Yeats, altri amici esuli non erano da attendersi là. Privo di radici, incapace di darsi una ragione di vita che superasse la logica dei suoi Cantos, Ezra difese allora non l’Italia reale, della quale s’infischiava, ma la cornice dei suoi sogni ad occhi aperti. Antiquario senza saperlo, custode del museo del suo cuore, egli leggeva le nostre vecchie cronache per cercarvi qualche episodio eccitante, qualche parola peregrina. Una notte che trovò la parola “lattizzo” uscì seminudo per le vie di Rapallo urlando: “lattizzo, lattizzo!”, e la moglie stentò a ricondurlo a casa.

La Capua di Pier delle Vigne, la Genova di Lanfranco Cigala, la Pisa di Rusticiano o Rustichello: ecco che cos’era l’Italia per lui. Scoppiata la folgore, isolato, egli si credette in obbligo di manifestare la sua fedeltà a una terra che perdeva la guerra per difetto di bimetallismo e di noccioline del Brasile, a una terra che da sei secoli era stata disertata dai geni creatori, ma che tuttavia accoglieva nel suo seno l’ultimo esule che non avesse tradito la causa della rivolta perpetua. Il germe del tradimento di Ezra è tutto qui. Non tento di giustificarlo, ma mi sforzo di capirlo. Quando un uomo si isola nell’ “umbilico del mundo” è facile che compia un ultimo passo e si convinca di essere egli stesso, in persona, quell’umbilico. Ezra Pound, l’omaccione cordiale e aggressivo, dalla barba color carota e dal colletto alla Robespierre, l’imbattibile giocatore di tennis, era troppo egocentrico per non fare quel passo. Portava il proprio ritratto inciso nel cammeo di un grande anello e se ne serviva come di un timbro da ceralacca per dedicare i suoi libri. Posseggo una copia di Personae con quel timbro. E sono convinto che l’anello lo abbia seguito nell’ospedale psichiatrico».

Insiste Montale nel sollecitare una lettura dei Cantos con animo sgombro da pregiudiziali politiche o caratteriali :

«Savio o pazzo ch’egli sia, di lui rimarrà certo qualche poesia come Provincia deserta dove parole ebbre zigzaganti e divaricate si animano quasi per virtù di un fluido misterioso, e dove rivive la grande Provenza dei suoi trovatori. Così, alcuni secoli fa, un piccolo prete, esule a Roma, Joachim du Bellay, nelle aeree strofette del Vanneur de blé espresse la nostalgia del nativo Anjou e, più sfortunato di Pound, dovette attendere a lungo prima che un Walter Pater, dopo Sainte-Beuve ma con accenti tutti suoi, consacrasse per sempre quell’odelette fuggitiva, dimostrando che talvolta i critici possono essere degni dei poeti».

Montale tornerà a disegnare un accurato profilo di Pound, per il “Corriere della Sera” del 19 novembre 1953, in cui non esita a definire i suoi Cantos  “il più vasto poema dantesco-joyciano che i nostri tempi abbiano concepito”:

«Dopo l’ondata della letteratura russa, abbattutasi sull’Europa a partire dal 1880, non v’è stato, nel nostro continente, nulla di più forte del messaggio di “barbarie” – in senso vichiano – pervenutoci dagli Stati Uniti. Ne è nato un luogo comune che sarebbe forse eccessivo rovesciare: quello che fa dello scrittore americano il prototipo del selfmade man culturale, dell’artista primitivo che crea liberamente come la pianta esprime i suoi pollini, in diretto contatto con la Natura, o se volete con Dio, senza mediazione alcuna di scuola o di tradizioni. L’equivoco durerà ancora a lungo: ma in verità non occorre una profonda iniziazione all’ancor giovane letteratura americana per accorgersi ch’essa, fin dalle sue origini, ha fatto disperatamente i conti con la tradizione europea.

Li ha fatti e li fa oggi, s’intende, in modo assai veloce, saltando dai classici greci e latini all’impressionismo francese (letterario e pittorico), dopo una breve escursione nei territori dello Stil Nuovo italiano, della poesia elisabettiana e dei poeti metafisici, o barocchi, inglesi; e il suo sforzo non è stato vano se ha provocato un contro-effetto e se oggi non esiste in Europa un poeta di qualche importanza che possa dire di non dover nulla alla poesia americana o alla poesia inglese “americaneggiante”.

Intorno al 1910 e negli anni successivi alla prima guerra mondiale la corrente dei così detti “exiles”, dei giovani americani che vengono a sottoporsi all’elettroshock di Parigi, si fa così forte che questi esuli non sono più isolati affatto, come lo furono in Italia Browning e Henry James, ma formano, anche culturalmente, una colonia. Una colonia a cui appartenne per un momento Ernest Hemingway (il più naturalmente, stendhalianamente europeo degli scrittori americani) ma che ebbe sempre il suo maggior pontefice in Ezra Pound, il poeta di cui abbiamo tra le mani l’ultimo libro in versione italiana (Canti pisani, tradotti da Alfredo Rizzardi, Guanda).

Il Pound, nato a Hailey (Idaho) nel 1885, ha questo di singolare, fra le tante curiosità che offre la sua biografia: che pur dovendo a un certo periodo della cultura francese, che va da Flaubert a Rémy de Gourmont, assai più di quanto debba all’Italia, si stabilì poi a Rapallo dove ha passato quasi trent’anni della sua vita. Chi l’ha conosciuto (ed io ho avuto la fortuna di avvicinarlo più volte) si è chiesto spesso, e inutilmente, che cosa ricercasse in Italia questo sperimentatore di schemi e modelli stilistici. Che la nostra tradizione poetica avesse, per lui, cessato di esser feconda dal Trecento in poi non era un mistero per nessuno. Un gusto da nazareno, da neo-primitivista o purista, non gli si poteva attribuire. Forse la sua posizione, in un primo momento, non era troppo diversa da quella di un Browning, un poeta di cui egli rivendicò sempre l’importanza: forse egli vedeva nell’Italia, più che altro, un archivio, non già di notizie erudite, ma di eccitanti culturali. Se con molta esagerazione volessimo fare di lui una sorta di Carducci americano, autodidatta e impazzito, ci apparirebbe chiaro che un buon massaggio di storia era necessario al poeta che già meditava di dare, coi suoi Cantos, all’America e al mondo, il più vasto poema dantesco-joyciano che i nostri tempi abbiano concepito». [10]

Si direbbe che il discorrere di Montale sulla travagliata vicenda di Pound sia paragonabile a una espressione algebrica in cui, essendo tutti i segni meno in numero pari, il risultato della moltiplicazione è positivo.

E’ in questa direzione che si ritiene opportuno ripercorrere integralmente i diversi contributi montaliani in quotidiani e riviste nell’ordine cronologico di pubblicazione.

Recita ancora la ‘perorazione’ montaliana del 1949:

«L’Italia era probabilmente il pied-à-terre più consigliabile per chi volesse affrontare un simile esperimento: non l’Italia d’oggi ma l’Italia di sempre: la terra dove natura e cultura fanno tutt’uno e dove anche il paesaggio sembra lavorato da secoli di civiltà. E se effettivamente il Pound si fosse accontentato di vivere alla finestra della storia (e della nostra storia) il suo travaglio poetico si sarebbe svolto pacificamente. Egli non era un ignoto quando, nel ’24, venne da noi: alcune liriche di Personae, un breve poema (il Mauberley), gli assegnavano già un posto di prim’ordine nella nuova poesia americana. Capo dell’imagismo e poi del vorticismo aveva esercitato un influsso anche su poeti a cui molto egli doveva: Yeats, Eliot. La sua posizione, comune a lui e ad altri imagisti, era quella che grosso modo si potrebbe definire come un futurismo ingenuo, rovesciato.

Infatti, i nostri futuristi erano ignoranti ma saturi di cultura implicita. Pound e compagni invece erano colti ma ricchi di una cultura da abrégé, da corso accelerato, da scuola serale. Non per nulla Pound, sedicenne, aveva chiesto all’università, di studiare solo ciò che piaceva a lui. E così fu che gli imagisti importarono in America la “poesia moderna” restando estranei a quella poesia di origine virgiliana e petrarchesca che attraverso Leopardi e Baudelaire è ancora il segreto della lirica europea. Forse fraintesero questa tradizione, che per loro aveva il nome del detestato Swinburne. E importarono il verso libero di tipo francese, essi che già vantavano un Whitman, e pervennero a squisitezze tecniche rare, assimilando quanto poterono della musica e della pittura d’oggi, e mantenendosi, per lo più, in clima sperimentale, da antologia. Non fu dunque ingiusto W.B. Yeats quando scrisse che Pound sembrava improvvisare traducendo da originali greci sconosciuti. E non solo greci, perché gli originali furono poi anche latini e provenzali, cinesi e stilnovisti, anglosassoni e francesi moderni: con un risultato che fece del Pound il poeta più originalmente composito che la storia moderna ricordi; un poeta che non è certo casualmente un coetaneo di Picasso e di Strawinskij.

Giunto in Italia, Pound iniziò quei Cantos che dovranno essere cento e sono per ora ottantasei. Iniziò quel modernissimo genere letterario che è un’epica volutamente produttrice di lirica, ossia la ricerca di un’impalcatura adeguata a un rivestimento di tralicci, alla copertura di un’abbondante serie di morceaux choisis. Un’epica-pretesto, insomma, che rinunzia già in partenza al motivo primo dell’epica, alla narrazione (e alla fiducia nei fatti narrati). Siamo ancora vicini a Browning, ma con apporti tecnici whitmaniani e in pieno clima di disfacimento, e ricomposizione, cubisti. Si aggiunga poi un’altra e più grave complicazione: che il Pound anziché stare alla finestra del mondo, s’era innamorato delle teorie economiche del Douglas e del Gesell, e che la sociologia e l’economia divennero per lui un dadà sempre più ossessionante. É inutile dire che Pound s’infischiava del mito di Roma e delle Tavole della Legge create dal fascismo; ma lo interessò e lo convinse quel che gli parve l’esperimento di un nuovo Stato, di una nuova civiltà, in cui il peccato capitale del mondo – l’usura – non fosse più possibile.

Filosofo, economista, esteta, disperatamente individualista ed egocentrico, socialista aristocratico senza Marx e senza diritti dell’uomo, antidemocratico, anticapitalista e infine antiamericano e, ahimé, antisemita e filonazista, il Pound rovesciò nei suoi Cantos, a pezzi, a frammenti, a singhiozzi, questi suoi sentimenti e risentimenti; e soprattutto in questi undici Canti pisani da lui scritti in prigionia quando, alla fine della guerra, egli fu arrestato per l’opera di propaganda antialleata da lui svolta, in veste di Zio Ez  (Uncle Ez) attraverso la radio italiana. Giudicato pazzo da chi voleva salvarlo dalla sedia elettrica, ricoverato in un ospedale psichiatrico, insignito nel 1949 del premio Bollinger per i Pisan Cantos, il Pound è diventato da allora un personaggio mitico che darà molto filo da torcere alla critica. E ci è grato che il suo traduttore e presentatore italiano, il Rizzardi, abbia assolto al suo quasi impossibile compito con una moderazione di giudizio che è prova di autentica serietà intellettuale.

Ed ora dovremmo presentare ai lettori dei “Canti Pisani”. Ma chi ci darà il filo, non il filo che c’è già troppo lungo, bensì il filo d’Arianna che ci permetta d’addentrarci nell’oscurissima selva? In un caso come questo, e dopo una sola lettura del poema, non resta forse che da riferire alcune impressioni provvisorie e conclusive con un “messo t’ho innanzi…” che lasci a chi leggerà il poema piena libertà di giudizio».

Piace a Montale portare all’evidenza come Pound ‘costruisca’ un linguaggio poetico nuovo allungando lo sguardo su ambiti disciplinari i più lontani e diversi, dalla scrittura ideogrammica alla musica, alle arti visive, alla filosofia, all’economia:

«I Canti pisani sono una sinfonia non di parole, ma di frasi in libertà. Non siamo tuttavia nel caos perché queste frasi sono legate da un “montaggio” che supera di gran lunga, per apparente incoerenza, quello di qualche parte dell’Ulysses e dell’eliotiana Waste Land. Si tratta però di un montaggio di cui sfugge totalmente il connettivo, il nesso conduttore. Immaginate che si possa radiografare il pensiero di un condannato a morte dieci minuti prima dell’esecuzione capitale, e supponete che il condannato sia un uomo della statura del Pound e avrete i Canti pisani: un poema ch’è una fulminea ricapitolazione della storia del mondo (di un mondo), senz’alcun legame o rapporto di tempo e di spazio.

Ci troviamo, s’intende, al di fuori di quello che nel linguaggio ordinario s’intende per “arte”. Migliaia di personaggi, fitto intarsio di citazioni in ogni lingua, ideogrammi cinesi, brani di musica, allusioni a tutto ciò che per cinquant’anni ha alimentato, nella storia, nella filosofia, nella medicina, nell’economia o nell’arte il pensiero moderno, non senza salti vertiginosi nel mondo del mito e della preistoria. Vi manca Freud, e ce ne congratuliamo, per il resto il catalogo è completo. Poesia-pittura a spicchi, ai limiti del non figurativo, mosaico fatto a pezzi e poi ricomposto senza che le tessere siano per nulla riaccostate. (…). L’interesse è però ravvivato dal fatto che qua e là, in questi canti di prigioniero, intravvediamo un Pound nuovo, provato dal dolore, una voce che piange, che geme, che soffre; e sentiamo allora che il giuoco diventa serio e lo spettacolo del clown si fa tragedia».

È qui la ragione del consentimento di Montale il quale estrapola versi poundiani che si direbbero autocitazioni:

As a lone ant from a broken anthill

From the wreckage of Europe, ego scriptor.

L’immagine dell’Europa come quella di un nido calpestato rimanda ai versi di Finisterre e tuttavia resta «l’impressione finale che anche nelle inflessioni più degne di Jacopone (“Pull down the vanity!) questo poeta si sia, ancora una volta, troppo guardato nello specchio».

Inevitabili in questa direzione le consuete ‘riserve’ di Montale:

«Che un poeta rimanga fanciullo è condizione imprescindibile della sua poesia; ma forse il Pound è rimasto troppo al di qua del giusto limite e chi gli ha parlato, nei suoi anni buoni, non può non aver riportato l’immagine penosa di un uomo non cresciuto, di una forza non convogliata in un’unica direzione, e, in definitiva, spesa tutta in superficie». [11]

Una successiva occasione per occuparsi di Pound si presenterà a Montale nel 1955:

«L’appello che giorni fa Giovanni Papini ha indirizzato all’ambasciatrice Luce per chiedere che il governo degli Stati Uniti metta in libertà Ezra Pound (Generoso appello, da aggiungersi alle molte voci che si sono levate, anche all’estero, in favore del poeta) ha fatto chiedere a qualche nostro lettore chi sia questo Pound che desta tante opposte passioni nel mondo letterario, e quale sia precisamente il suo caso». [12]

Di qui il lungo articolo di Montale per il “Corriere d’Informazione” del 19 novembre 1955, Se i biglietti da mille fossero quelli di Ezra Pound:

«Ezra Pound, oggi settantenne, è il poeta americano che durante la guerra “tradì” (così dice l’accusa) il suo Paese svolgendo alla radio italiana un’attività per la quale nella legislazione degli Stati Uniti era prevista la pena capitale. Alla fine della guerra Pound, arrestato e condotto in patria, non vi subì processo perché una commissione di psichiatri lo giudicò “improcessabile”. In seguito a questa perizia il poeta fu così rinchiuso in una clinica psichiatrica (manicomio) di Washington dove si trova tuttora. Il problema della sua liberazione sembra dunque assai complesso. Si può far grazia a un condannato, ma Pound non fu mai tale. Rimetterlo in libertà dichiarandolo guarito non riaprirebbe forse il processo a suo carico? E con quali conseguenze? É una questione che non può certo esser risolta dagli intellettuali italiani: i quali tuttavia sono concordi nell’augurarsi che Pound sia rimesso in libertà e possa attendere a quei suoi lavori ch’egli del resto non ha mai interrotto neppure nella clinica di Santa Elisabetta. I suoi cento Cantos si avviano alla conclusione, e proprio in questi giorni Vanni Scheiwiller ne ha pubblicato, in una stupenda prima edizione di cinquecento copie, la serie 85-95 che diventerà presto una rarità. In Italia, a Venezia Pound ha pubblicato il suo primo, introvabile volumetto di poesie: A lume spento; in Italia, e particolarmente a Rapallo, il poeta ha passato almeno un quarto di secolo e molto della nostra storia lampeggia nella selva dei Cantos; in Italia, sempre a cura di Scheiwiller, è uscita la singolare antologia poundiana Profile (1932) e un volumetto che contiene le teorie economiche del poeta; e non proseguiamo a elencare le molte ragioni che fanno di Pound un poeta che in casa nostra ha trovato amici e ammiratori come in nessun altro luogo. È dunque naturale che nel coro universale che dice “liberate Pound: ha scontato abbastanza i suoi errori, se errori ci furono” le voci degli italiani siano tra le più calde e sincere.

“Se errori ci furono…” Questa nostra parentesi vuole esprimere in sintesi ciò che vi è di controverso nel caso di Pound. Noi abbiamo ascoltato alla radio i discorsi poundiani incriminati, e d’altronde non starebbe a noi infierire sul poeta. I suoi difensori sembrano ammettere in lui l’esistenza di quel grano di follia che i clinici americani gli attribuirono forse per risparmiargli la vita. Non ammettono però che Pound abbia tradito il suo Paese in guerra. Pound, dicono, era un anti-interventista, un anti-rooseveltiano, un nemico del capitalismo, le guerre, per lui, sono inevitabili nei regimi capitalistici e creano altre guerre. Pound non ha fatto che continuare una polemica che durava da anni. Non è un antisemita ma un nemico dell’usura, il peccato capitale dei nostri tempi. Altri zelatori, invece, più sinceri e più incauti, dichiarano che il poeta ha il cervello perfettamente a posto e che le sue idee sono tuttora vive e attuali. E questi sono i suoi amici più pericolosi…».

Ancora una volta la trepidazione di Montale per le sorti dell’amico la dice lunga sulla saldezza di un rapporto che nasce dalla condivisione di alcuni modelli assunti al ruolo di grandi educatori, Dante in primo luogo. E dopo aver riportato alcuni passaggi da Lavoro e usura, in cui le aberranti scelte politiche di Pound risultano l’espressione di alcune sue discutibili teorie di ‘macroeconomia’, Montale si affretta ancora una volta a tracciare il ritratto del poeta americano come deve esserglisi mostrato al suo primo incontro, negli anni giovani, a Rapallo:

«Quando lo conobbi, intorno al ’25, Pound era un bell’uomo, aitante, il mento adorno da un pizzo poil de carote. Giocatore di tennis, musicista appassionato che salvò dalla distruzione non so quante musiche inedite di Vivaldi, autore di un melodramma in un atto (Villon), viveva a Rapallo in quasi povertà, senza circondarsi di quelle suppellettili di gusto preraffaellita che furono care a uno dei suoi maestri, il Browning di Casa Guidi».

Lo stesso richiamo di Montale alla comune passione per la musica – negli anni italiani oltre a comporre il melodramma Cavalcanti, dal divertente libretto, e a “vivere intere giornate nella musica”, Pound dà vita alle innovatrici stagioni concertistiche degli “Amici del Tigullio”, aperte il 10 ottobre 1932 dal pianista Gerhart Munch e dall’amica violinista Olga Rudge –  può leggersi come la spia di una affinità mai negata, nonostante la inconciliabilità delle scelte politiche:

«Assistito quasi maternamente, allora come oggi, – prosegue il ritratto montaliano – dall’incomparabile consorte, Mary Shakespear, in quel tempo Pound aveva già una storia, Eliot lo aveva salutato “miglior fabbro”, Yeats e Joyce gli erano amicissimi, il gruppo degli “esuli” (Hemingway ed altri) lo considerava un maestro. Erudito, ma di un’erudizione che sapeva di digesto, di corso accelerato, fluido ma non corretto parlatore della nostra lingua, aveva allestito una discussa edizione delle poesie di Cavalcanti e collaborava a riviste italiane con note spesso illuminanti. Le sue poesie erano allora raccolte nel volume Personae ch’egli mi dedicò stampandovi a ceralacca il cammeo del suo anello, inciso da Gaudier Brzeska. In quel volume di rara poesia tra bizantina e laforguiana è compreso il poema Hugh Selwyn Mauberley che la critica inglese e americana considera il suo capolavoro.

Di questa poesia in cui brillano alcune stupende pagine di argomento trovadorico (e di evidente discendenza browninghiana), ha scritto argutamente W.B. Yeats, che sembra tradotta da un inesistente originale classico. Prevalse poi nei Cantos la vena browninghiano-whitmaniana, filtrata però attraverso Joyce e i vari postumi del futurismo. Nei Cantos, e particolarmente nei Pisan Cantos, di cui esiste una meritoria versione italiana di Alfredo Rizzardi, sono accenti degni di Jacopone e di Villon, e staffilate di poeta giudicante che fanno pensare ad Agrippa d’Aubigné. Nell’insieme, però, il poema lascia l’impressione di quel caleidoscopio che forse si forma nella mente di un condannato a morte quando s’avvia al patibolo. É un vorticoso toboggan di illuminazioni e di ricordi che mettono a soqquadro cielo e terra: cronaca, reportage, lamento e invettiva.

La tragedia forse di un uomo incapace di darsi un solo volto, di vivere in un solo tempo. Costellati come sono da ideogrammi cinesi i Cantos saranno forse un giorno delucidati da una squadra di glossatori, da un Pound club che già esiste in atto anche se non ha i suoi statuti. Ma dovrà essere un commento sterminato.

Come traduttore Pound si era fin da quel tempo esercitato con successo su greci e latini, cinesi e provenzali; in collaborazione col Fenollosa aveva fatto conoscere alcuni noh giapponesi; e come critico aveva compiuto scorribande che lasciavano col respiro sospeso i fedeli della tradizione umanistica e storicistica. Non aveva egli, del resto, affermato che di una lingua basta conoscere le poche parole essenziali delle più importanti poesie? Al lettore che abbia fretta possiamo indicare i Selected Essays con prefazione di T.S. Eliot.

Tale è il Pound che ho conosciuto e incontrato più volte fra il ’25 e il ’35; l’uomo impulsivo e leale che prese a tradurre il Moscardino di Pea quando ebbi a segnalarglielo, ma che in mille cose era lontano da una letteratura – la nostra – che a suo avviso aveva perso l’autobus dopo il Trecento».

Senza dubbio nel decennio ’25 – ’35, che coincide con la stagione degli ultimi Ossi e del primo nucleo delle Occasioni, l’ascendente di Pound deve aver svolto un ruolo non trascurabile nell’immaginario poetico di Montale, il quale non fa a meno di precisare:

«Dopo il ’40 non ci vedemmo più: forse perché Pound, quasi per un eccesso di vitalità, mostrava una singolare incomprensione per quegli italiani che non sapevano vedere nell’Italia antiusuraia di Mussolini un Eden di delizie. Io non comprendo tutte le sue poesie, probabilmente per mia ignoranza, e meno ancora so orizzontarmi nelle sue strane teorie economiche e sociali. So solo che se l’amministrazione del mio giornale, a fine mese, mi offrisse un pacchetto di biglietti prossimi alla prescrizione correrei come un pazzo alla ricerca di qualcuno che volesse accettarli, magari in cambio di una scatoletta di fiammiferi svedesi. Ma questo non mi vieta di salutare in Ezra Pound un poeta – probabilmente un grande poeta – e un uomo che ha sempre combattuto a viso aperto.

Se ha errato ha scontato i suoi errori. Forse non è troppo tardi per trovare la scappatoia, il cavillo che lo rimetta in libertà e lo riporti (chissà) in questa Italia d’oggi, ormai irreparabilmente legata alle potenze usuraie. Non vi troverà il paradiso di ieri, ma che importa? Un uomo che scavalca i secoli, come Pound, può sempre pensare che per un poeta la vera storia è quella ideale, la metastoria; e in questo pozzo senza fine egli, da noi, potrà attingere a piene mani, senza esser disturbato da infermieri o da inquisitori».

Tornando a riflettere a dieci anni di distanza sulla vicenda politica poundiana, in un lungo articolo, Il moralismo “naturale”, per il “Corriere della Sera” del 19 dicembre 1965, occasionato dal fascicolo di “Herne” interamente dedicato a Pound, pubblicato in quello stesso anno, Montale abbandona le precedenti cautele:

«Il sesto quaderno dell’”Herne” dedicato a Ezra Pound consta di ben 330 pagine e sarà seguito da un altro volume offerto egualmente all’ottantenne poeta americano. Omaggio senza precedenti e neppure tardivo perché nulla di simile sarebbe stato possibile quando il poeta (per sottrarlo a ben più dura sorte) era stato da poco confinato in un ospedale psichiatrico. In Italia si è fatto di meno e di più. Di più in numero e qualità di traduzioni, di meno in materia di celebrazioni collettive. Ma a dire il vero di celebrazione non si tratta, bensì di una raccolta di giudizi, di testimonianze e di lettere inedite del poeta; e nemmeno può parlarsi di una manifestazione alla quale siano chiamati i soli francesi. Nel numero degli intervenuti figurano scrittori di ogni Paese e persino cinque italiani: Grazia Livi, il Bigongiari, il sottoscritto, il Bodini, che ebbe un breve carteggio col poeta, e Piero Sanavìo che ha dato forse il più originale contributo analizzando il molto controverso pensiero politico dell’autore dei Cantos. Fu fascista Pound? Apparentemente sì e con indubbio spirito consequenziario perché si espose all’accusa di aver tradito il suo Paese in guerra. Ma se parlo di apparenza non intendo dire che il suo pensiero mancasse di una sua logica; benché tale logica, studiata nel contesto del pensiero politico a lui congeniale, non fosse che la prognosi sbagliata di una diagnosi giusta.

Secondo il Sanavìo, Ezra Pound ha portato alle ultime conseguenze, in un mondo del tutto mutato e in una contingenza ben più vasta che coinvolgeva le sorti dell’intero Occidente, il pensiero che va da Jefferson a Quincey Adams: una sorta di moralismo naturale per il quale bastano i freni di poche leggi emanate da uomini onesti e competenti per impedire la concentrazione del potere nelle mani di un solo gruppo. Di qui la convinzione “che esista e debba esistere una élite aristocratica che detiene tutte le conoscenze, e la convinzione che le culture preesistano all’uomo, il cui solo compito è di definirle”. E di qui la fatale discontinuità della storia, la metamorfosi dei regimi politici, tutti buoni quando siano affidati a buone mani, tutti cattivi quando si sostengano sull’usura e sui privilegi. Ha buon gioco il Sanavìo nel dimostrarci che l’usura, la schiavitù, le atrocità esistevano già in quella tradizione biblica e classica prevalentemente agricola che non ha mancato di tuonare contro l’usura. Ma se questo enorme errore di visuale ha permesso a Pound, per un certo tempo, di scambiare Mussolini con un nuovo Jefferson, esso non spiega tutto l’’errore del poeta e nemmeno le connesse panacee del confucianesimo, del Gesellismo e in genere la sua strana mania di concepire la vita e l’arte come una serie ininterrotta di “citazioni”.

I Cantos sono infatti, un prodigioso cibreo di citazioni, ciò che dimostra la formidabile memoria del poeta e il “tematismo” della sua visione della vita. Per lui la storia è una partitura musicale ch’egli apre qua e là per suo diletto o per nuovi temi di poesia. Ha tentato di essere anche musicista e su questo il quaderno dell’”Herne” è ricco di informazioni. Che poi la sua sostanziale mancanza di pietas storica potesse indurlo a giustificare persino il nazismo quando intere folle di ebrei erano sterminate, questo resta un mistero che l’analisi di Sanavìo non spiega. Inglesi e americani, che non nascondevano la loro simpatia per il fascismo, io ne ho conosciuto molti quando vivevo a Firenze; ma il loro sottinteso era: è una faccenda che va bene per voi, popolo politicamente ineducato.

Il caso Pound mi sembra diverso, spiegabile solo con la sua fiducia nelle metamorfosi, ma difficilmente giustificabile. Non tutti gli antidemocratici, nel senso che la parola democrazia ha assunto da noi: democrazia parlamentare, pur essendo convinti che il popolo non potrà mai autogovernarsi, hanno pensato che agli attuali parlamenti fosse da preferirsi l’homme de la glaive, il capo infallibile. Non tutti sono giunti a questo, non tutti hanno confuso le idee di Nietzsche con le teorie del razzismo. Ma Ezra Pound non fu di costoro e il fatto non finisce di stupirci. Sarebbe stato un altro uomo Pound se non avesse ignorato il marxismo? L’ipotesi è stata fatta, sia pure con la necessaria prudenza perché c’è un abisso tra le metamorfosi alle quali il poeta credeva e il favoloso salto qualitativo che resta l’ipotesi ultima del pensatore tedesco.

Secondo Sanavìo il Pound non comprese la lezione di Marx, ignorò che l’uomo è dominato dalle strutture economico-sociali e non ne è il creatore, come credevano i pionieri americani. Ed anche questa è una spiegazione parziale perché sono esistiti uomini estranei al marxismo che hanno lottato contro il nazifascismo. In ogni modo è innegabile che Sanavìo getti molta luce sul particolare atteggiamento politico del poeta americano, anche se non ne esaurisce i motivi». [13]

E dopo aver velocemente informato sugli altri interventi raccolti nel fascicolo, Montale torna a riflettere sul tema dell’ “impegno”:

«L’”Herne” è la pubblicazione meno engagée che esista in Francia. Può darsi che un omaggio a Pound proveniente da questa fonte desti sospetti. Ma sarebbe un errore. Se l’impegno politico della presente letteratura francese è alquanto in ribasso, ciò si deve almeno a due cause: la prima è che il papà De Gaulle, anche se ha rinfoderato la glaive, ha tolto a molti francesi il disturbo di pensare; l’altra è che in tutto il mondo si crede sempre meno che l’impegno politico-sociale possa sostituire il genio poetico. Non lo esclude affatto, siamo d’accordo; ma non lo sostituisce. Non dimentichiamo che uno dei massimi poeti dell’impegno politico e religioso – Dante – disse di voler essere letto soprattutto come poeta. Che poi una simile ragione valga anche per Pound, questo non serve a dissolvere i dubbi di cui abbiamo parlato. Tuttavia è già incredibile che nell’era della cultura tascabile si possa ancora discutere su argomenti che investono la totalità di un uomo e non solo le disgrazie della sua vita».

E tuttavia in qualche misura sorprende che Montale in L’aria di casa, un articolo per il “Corriere della Sera” del 17 febbraio 1972 in occasione della morte di Pound, chiami in causa Eliot e sottolinei la propria distanza dal poeta e il suo apprezzamento per il drammaturgo:

«Il fatto che io abbia tradotto tre Ariel Poems di Eliot fin dal loro apparire mi ha procurato una reputazione di eliotista che non mi compete. Molto di Eliot non conosco; e di quel che conosco non tutto trova eco in me. Le sue idee sull’arte e sulla poesia mi sembrano spesso infondate. Egli si è molto arrovellato su una questione, quella del belief, che per noi italiani non ha senso. Se si debba o si possa ammirare un poeta di cui non si accetta il pensiero, ecco un problema che noi felicemente ignoriamo. E che dire del famoso correlativo obiettivo? Che un’emozione poetica trovi la sua corrispondenza in un oggetto che non è la sua espressione ma, direi, la sua incarnazione, questo si è sempre saputo. Cito, naturalmente, casi estremi che non toccano il molto che Eliot ci ha dato come critico e essayst.

Quanto alla poesia, tante sono le liriche eliotiane alle quali va la mia ammirazione, purgatoriali o no. Ma c’è un lavoro teatrale, il Cocktail Party, che a mio parere merita ben altra fortuna. Si dovrebbe tradurlo in prosa e non in pseudoversi come si è fatto e sarebbe opportuno qualche minimo taglio per far sì che il dottor Reilly diventi un medico e non un Demiurgo; e si avrebbe allora una deliziosa farsa tragica scritta a quattro mani da Sheridan e da un buon lettore di Kierkegard. In questo dramma Eliot ha messo il meglio di sé, la sua ironia e la sua pietà, non il suo pensiero, nulla che ponga in gioco il mio belief.

E Pound? Conosco l’uomo da più di quarant’anni e certe sue poesie di argomento provenzale hanno un accento che ritroveremo in Eliot. È sicuro che i due poeti hanno fatto un certo cammino insieme. Poi il miglior fabbro ha rotto gli argini mentre Eliot ha scelto la via del Purgatorio. Ho seguito il fabbro fino ai Canti pisani, dopo ho dovuto fermarmi per riprender fiato. Lo zio Ez è stato un artefice prodigioso, e magari molto di più». [14]

Non v’è dubbio che il particolare sperimentalismo di Pound, bilanciato tra avanguardia e tradizione, quale si configura già nella prima raccolta pubblicata nel breve soggiorno a Venezia del 1908 A lume spento, abbia offerto una persuasiva prova delle straordinarie possibilità innovative che si determinano mettendo in corto circuito elementi di lontana e contraddittoria provenienza, richiami classici con esigenze antiretoriche e antimelodiche, in una ininterrotta ricerca tesa a cogliere la palpitante fisicità dei vari fenomeni della natura e insieme la bellezza spirituale che da essi si sprigiona.

E di fatto gran parte delle sperimentazioni della poesia moderna, a partire dagli anni Venti / Trenta, possono considerarsi debitrici nei riguardi della tecnica poundiana «basata – scrive Giovanni Raboni nel saggio Nella fucina del gran fabbro – su un formidabile plurilinguismo (sia in senso proprio – uso di molte lingue, dal latino all’italiano e al francese, dal provenzale al greco antico, al cinese ecc., dentro l’involucro portante dell’inglese – sia nel senso della molteplicità dei registri sintattico-lessicali, che vanno dall’aulico al gergale, dall’astrazione simbolica alla concretezza del parlato) e sull’uso, sistematico ma quasi sempre genialmente “spiazzante”, della citazione. Frammenti di conversazione e documenti d’archivio, versi di altri poeti e passi di prosa giornalistica, ideogrammi e brani di spartiti musicali risultano inglobati, incorporati nel tessuto metrico e metaforico del poema, con un effetto al tempo stesso materico (di collage) e trascendente (di fondazione di una sorta di superlinguaggio mirante a una superiore, altamente umanistica, unità)». [15]

In questa direzione assai desta deve essere stata l’attenzione dello stesso Montale il quale ha peraltro totalmente condiviso la devozione di Pound all’universo poetico dantesco.

Nel saggio del 1965, Esposizione sopra Dante, Montale sottolinea la eccezionale mescolanza di stili e modi che Dante mette in atto al più alto grado nella Commedia, fino a compiacersene nella epistola dedicatoria del Paradiso a Cangrande della Scala, laddove rileva, non senza una qualche enfasi provocatoria, che il suo modo di trattare è “poetico, fittizio, descrittivo, digressivo, transuntivo e insieme definitivo, divisivo, probativo, reprobativo ed esemplificativo”. [16]

Piace a Montale richiamare l’attenzione sulla indiscutibile unità del poema “data dalla concretezza delle immagini e dalla capacità del poeta di rendere sensibile l’astratto, di rendere corporeo l’immateriale”, che è indiscutibile indizio della volontà di riportare direttamente alla matrice dantesca peculiarità del suo stesso fare poetico che potrebbero essere attribuite all’ascendente di Pound.

Non sorprende quindi che, subito dopo, Montale non faccia a meno di sottolineare la improponibilità del ‘parallelismo’ avanzato da Eliot tra la Commedia e i Cantos:

«Evidente è il tentativo di porre mano a un poema totale dell’esperienza storica dell’uomo nei cento e più Cantos di Ezra Pound, che non ha voluto però imitare le simmetrie e la rigorosa struttura della Commedia. I Cantos contengono tutto lo scibile di un mondo in disfacimento e in essi il senso del carpet domina su quello di una costruzione, di un avvicinamento a un centro». Ed è proprio qui che si gioca – fa rilevare Montale – la irripetibilità ma anche la “datità” dell’operazione dantesca: «(…) non sembra che in un mondo in cui l’enciclopedismo non forma più una sfera, ma un immenso coacervo di nozioni che hanno carattere provvisorio, si possa più ripetere in una forma strutturata e con una inesauribile ricchezza di significati palesi e occulti l’itinerario di Dante. (…). Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale».

Nonostante la cautela, l’equilibrio e al contempo l’acutezza di giudizio con cui Montale si fa interprete di una vicenda artistica che ancora oggi suscita  forti resistenze, non v’è dubbio che la sfida, al limite della temerarietà, lanciata da Pound nella sperimentazione di un linguaggio poetico nuovo, che trova alimento nelle stesse problematiche economico/politiche che ancora oggi attanagliano la società a tutte le latitudini, abbia nei suoi Cantos, sia pure con inevitabili discontinuità, esiti annoverabili tra i più alti nella storia della poesia del Novecento.

Rosita Tordi Castria

[1] Ammiratore di Mussolini, nel quale identifica il politico in grado di proporre una “terza via” tra liberismo e collettivismo, Pound si adopererà, nel secondo conflitto mondiale, per ostacolare il coinvolgimento del suo paese accanto alle forze alleate antifasciste. Queste sciagurate scelte politiche gli alieneranno inevitabilmente la simpatia degli stessi intellettuali che pure apprezzavano la sua poesia.

Nell’aprile 1945 è arrestato dai partigiani e consegnato ai militari statunitensi i quali il 3 maggio, con l’accusa di tradimento, lo trasferiscono in un campo di prigionia nelle vicinanze di Pisa e in novembre a Washington per sottoporlo a processo.Di fatto, ritenuto infermo di mente, Pound è internato direttamente nel manicomio criminale federale fino al 1957 quando, concessagli la libertà, può tornare di nuovo in Italia. Alla liberazione di Pound dal Manicomio Criminale di Washington hanno contribuito intellettuali estimatori dei suoi Cantos tra i quali lo scrittore americano Ernest Hemingway e l’editore italiano Vanni Sceiwiller. La morte coglie Pound a Venezia nel 1972 ed è sepolto nel cimitero evangelico della città che lo aveva ospitato per un brevissimo soggiorno nel lontano 1908.

[2] “Broletto”, Como, 1935-1938

La rivista è fondata nel gennaio 1935 dal collezionista e critico d’arte milanese Carlo Peroni e da Alberto Savinio che ne è il direttore. Con il fascicolo di dicembre 1935, in una situazione finanziariamente più difficile in seguito alle sanzioni economiche comminate l’11 ottobre dalla Società delle Nazioni all’Italia per aver invaso l’Etiopia, sono sospese le pubblicazioni per tutto il 1936 e Savinio rinuncia alla direzione.

É soltanto nel gennaio 1937 che la rivista potrà essere di nuovo avviata da Carlo Peroni che se ne assume la direzione. A incoraggiare la ripresa è assai probabilmente l’atteggiamento favorevole di personalità politicamente influenti quali il podestà di Como, Attilio Terragni, fratello dell’insigne esponente dell’architettura razionalista, e Margherita Sarfatti, molto vicina al ministro della cultura Giuseppe Bottai e collaboratrice di “Broletto” fino dalla prima stagione.

Sua la recensione Italiani di ieri e di oggi, nel fascicolo di ottobre 1935, e Passeggiando fra alcuni capolavori, nel fascicolo di gennaio 1938.

A lei sono dedicati in “Broletto” due articoli di Francesco Callari, entrambi del 1935: Poesia di Margherita Sarfatti, nel fascicolo di marzo, e Il “Ranzoni” della Sarfatti nel fascicolo di luglio-agosto dello stesso anno.

Nel corso del 1937 le correzioni di linea rispetto alla prima stagione della rivista non sono ancora rilevanti.

É a partire dal fascicolo di gennaio 1938 che la fisionomia della rivista  subisce una innegabile alterazione: un segnale può leggersi nella stessa scelta di una nuova copertina, dalla quale scompare l’immagine della rana, disegnata da Arturo Martini, che potrebbe sembrare irridente nei confronti del regime, per lasciare spazio al solo nome della rivista, scritto verticalmente sul lato destro, con colori che cambiano di fascicolo in fascicolo su un fondo rigorosamente nero.

I collaboratori più assidui restano quelli della prima ora, Enrico Falqui per la critica letteraria, Gianna Manzini, con lo pseudonimo Vanessa, per la cronaca della moda, Marziano Bernardi per la critica d’arte, Bruno Barilli per la cronaca musicale, Leonardo Sinisgalli e Carlo Linati per la narrativa di paesaggio, non senza altre presenze occasionali.

Quel che in ogni caso appare fin d’ora indubitabile è un cambiamento di passo, nella conduzione di “Broletto”, che diventerà di tutta evidenza a partire dal 1938, quando si registra il coinvolgimento di Ezra Pound.

[3] È assai probabile che ad agire per la definitiva chiusura nel dicembre 1938 della rivista comasca, al di là di ragioni strettamente finanziarie, siano state considerazioni collegabili al dilagare in Europa della violenza antisemita in seguito al tragico evento del 10 novembre di quello stesso anno, la famigerata Notte dei cristalli, quando i nazisti infrangono le vetrate di molte città della Germania con il pretesto dell’uccisione a Parigi di un diplomatico tedesco da parte di un ragazzo ebreo.

Molti gli intellettuali ebrei che lasciano l’Europa tra i quali la stessa Margherita Sarfatti che, nello stesso mese di dicembre 1938, decide di trasferirsi in Argentina, dove resterà fino al 1947.

Non v’è dubbio che l’allontanamento di una presenza culturalmente e politicamente importante quale la Sarfatti, che ha senz’altro contribuito a garantire alla rivista comasca una navigazione in grado di evitare gli scogli della censura di regime, sia stato determinante nel renderne improcrastinabile la chiusura definitiva.

[4] La convinzione di Pound non sarà scalfita né dall’avvicinamento del fascismo al nazismo, sancito dal viaggio di Mussolini a Monaco di Baviera nel settembre 1937 e da quello di Hitler a Roma nel maggio 1938, né dalla promulgazione delle leggi razziali. La contropartita che ha dovuto scontare, al di là di un progressivo, inesorabile isolamento, è l’arresto il 3 maggio 1945 seguito dal trasferimento in un campo di prigionia non lontano da Pisa e successivamente a Washington, per un processo che non si celebrerà solo perché, ritenuto un malato mentale, sarà internato nel manicomio criminale federale fino al 1957, quando potrà tornare libero in Italia. Tra gli intellettuali che ora gli sono più vicini sono da annovedare Lauwrence Ferlinghetti, Pierpaolo Pasolini e l’editore Vanni Scheiwiller.

[5] Eliot lo definisce “il miglior fabbro” per aver rivisto la sua The Waste Land, e averla resa idonea alla pubblicazione nel 1922.

[6] E.M., Biografie al microfono in Il secondo mestiere. Arte musica società, cit., pp. 1611-1621;

[7] Montale suggerisce a Pound la traduzione del Moscardino di Enrico Pea.

[8] E.M., Fronde d’alloro in manicomio in Il secondo mestiere. Prose, cit., pp. 789-793;

[9] Il melodramma Le Testament, dal testo di Francois Villon, è stato eseguito la prima vota in forma concertistica nel 1926. Successivamente in forma di balletto nel Festival Dei Due Mondi di Spoleto nel 1964 per iniziativa di Gian Carlo Menotti.

[10] E.M., Ezra Pound in Il secondo mestiere.Prose, cit., pp. 1592-1598;

[11] Riguardo alle teorie economiche di Pound in Lavoro e usura fa rilevare Montale: «In Italia, naturalmente, le idee politico-economiche di Pound sono poco note e in lui si vede soprattutto l’ultimo grande poeta straniero che abbia amato il nostro paese. Gli italiani, in genere, assolvono Pound senza giudicarlo. Chi voglia dare un’occhiata al saggio Lavoro ed usura di Pound, di cui esiste una versione italiana nei “Pesci d’oro” di Scheiwiller, potrà farsi una certa idea di qualche aspetto del pensiero poundiano. Il poeta accetta le teorie di Sivio Gesell sulla prescrittibilità della moneta. Supponete che un foglio da mille sia valido solo se ad ogni mese vi si attacchi una marca da bollo da dieci lire; ed ecco che nel corso di cento mesi il biglietto sarà inutilizzabile e il fisco potrà recuperare una somma eguale all’emissione originale del biglietto. “Per rendere questo fatto ancora più chiaro” – scrive Pound – “potete immaginare una banconota messa in un forziere per cento mesi; cioè una moneta che fa sciopero, che per cento mesi non funziona come mezzo di scambio, non riempie il suo destino. Ebbene, la tassa su questa pigrizia eguaglia il nominativo. Invece un biglietto che passa di mano in mano può servire in centinaia di operazioni prima di essere tassato affatto.

Che cosa potrebbe opporre un economista tradizionale a questa teoria che pare abbia dato buoni risultati in qualche piccola comunità? Non oso immaginarlo; so soltanto che Pound non si lascerebbe disarmare dalle obiezioni; lui che pretendeva di risalire fino ad Aristotele e a Confucio e studiava “le correlazioni fra l’economia fascista, l’economia caconica ovvero cattolica e medievale e le proposte della scuola di C.H. Douglas e di quella di Gesell”; ma che poi spiega la storia di tutto il mondo col fatto che gli Stati Uniti furono venduti ai Rothschild nel 1863. L’usurocrazia che ebbe il sopravvento in America dopo la morte di Lincoln per lui è la forza che ha condannato a morte Hitler e Mussolini (e lo stesso Lincoln, naturalmente). Quanto all’economia del bolscevismo, essa differisce solo in superficie da quella del capitalismo: il bolscevismo è alleato in profondità col liberalismo. I liberali parlano di esportazione della mano d’opera, Stalin comanda “quaranta vagoni di materia umana per lavori su un canale”. “Il bolscevismo si proponeva di distruggere il capitale ed invece attaccò la proprietà (specialmente quella dei contadini)».

[12] E.M., Se i biglietti da mille fossero quelli di Ezra Pound, cit., pp. 1883-1888;

[13] E.M., Il moralismo “naturale” in Il secondo mestiere. Prose, cit., pp. 2762-2766;

[14] E.M., Un’aria di casa in Il secondo mestiere. Prose, cit., pp. 2994-2995;

[15] G. Raboni, Nella fucina del gran fabbro, in “Galleria” n.3-4 1986 (fascicolo interamente dedicato a Pound).

[16] E. M., Esposizione sopra Dante, in Il secondo mestiere. Prose, cit., pp. 2688-89;

Rosita Tordi Castria