“Quando si incontra Carlo Levi a Mosca, a New York, a Parigi, si è subito colpiti da una strana contraddizione: egli, dovunque si trovi, rimane il più romano dei romani, così che si crederebbe non abbia neppure lasciato Roma, o che se la sia portata dietro, ma nello stesso momento sembra ritrovarsi dappertutto come a casa propria”.
Torino e Roma nello sguardo di Carlo Levi
Se lo sguardo di Carlo Levi è aperto a un universo senza confini, è nondimeno innegabile che vedette privilegiate di avvistamento siano identificabili in due città, Torino e Roma, le cui immagini, pur rappresentando polarità in qualche misura antitetiche, si intrecciano nel suo percorso creativo con singolare frequenza dopo il definitivo trasferimento a Roma nel 1945.
Testimonianza inconfutabile il suo miglior romanzo L’Orologio, pubblicato nel 1950: storia di tre giorni e tre notti del dicembre 1945.
Nel descrivere una Roma sfigurata dalla guerra, Carlo confessa:
Dibattere i pensieri passeggiando per le strade non era abituale, qui a Roma: mi pareva quasi una cosa dimenticata. La città non si presta, così intensa di vitalità fisica, così ricca di occasioni e di distrazioni, da obbligarti ad ogni istante a volger lo sguardo e a interrompere il filo per un qualche spettacolo umano troppo meraviglioso per poter essere trascurato. E anche forse perché sembra che tutte le idee possibili vi siano già state abitate in qualche altro tempo, e abbiano lasciato il loro segno su qualche pietra o su qualche volto.
Affiora inaspettato il ricordo trepido della sua Torino:
Preso tra i due amici, mi pareva di essere altrove, nell’antica e unica città dell’adolescenza, a Torino, dove le idee e l’amicizia sono dei beni esaltanti, e i corsi alberati sono così lunghi e vasti e deserti, che le parole pare vi possano correre, e allungarsi senza inciampi. A tutte le ore quei corsi, quelle vie solitarie si aprono ai giovani che hanno da dirsi delle cose importanti, alte e acute come le montagne bianche, là in fondo. La notte, la città intera diventa un grande portico, dalle sue arcate settecentesche ai ponti sul Po, ornati da statue floreali e materne: in questo portico giovanile camminavamo avanti e indietro, nei tempi eccitanti delle prime amicizie, e le nostre voci correvano per i corridoi bui delle strade, fino a incontrare, lontano, dietro i tronchi dei platani, altre voci concitate e entusiaste. (p.157)
Di tutt’altro registro la Roma notturna quale si configura nel movimento d’avvio del romanzo :
La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore secco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case. […].
Tendevo l’orecchio ad ascoltare, e scrutavo nel buio, sopra i tetti e le altane, in quel mondo pullulante di ombre; e il suono penetrava in me come un’immagine infantile, spaventosa, commovente e arcana, legata a un altro tempo.
Circola in queste pagine un antico, inconfessato, amore per la città dove Levi ha scelto di spendere gli anni decisivi del suo percorso esistenziale e artistico, che è anche il segmento ultimo, quello tra il 1945 e il 1975.
Il cielo romano è ricco, denso, popoloso, gremito di nubi barocche, pieno di curve mutevoli, appoggiato sulle case, sulle chiese e sui palazzi come una cupola fantastica che il vento fa girare.
Soccorre in questa direzione lo sguardo di Jean Paul Sartre:
Quando si incontra Carlo Levi, a Mosca, a New York, a Parigi, si è subito colpiti da una strana contraddizione: egli, dovunque si trovi, rimane il più romano dei romani, così che si crederebbe non abbia neppure lasciato Roma, o che se la sia portata dietro […], ma nello stesso momento […] sembra ritrovarsi dappertutto come a casa propria. […]. E intanto Roma è là tutta intera, inafferrabile, opaca e presente: vissuta nella sua indecomponibile totalità.
È l’idea dell’‘universale singolare’ scelta da Sartre per il suo svelto profilo il cui explicit recita:
Con applicazione costante Levi sa farci vivere, nei suoi scritti come nella sua conversazione, al di là dei significati, il senso ambiguo della nostra epoca. […].
In lui tutto si tiene.
Medico dapprima, poi scrittore e artista per una sola identica ragione: l’immenso rispetto per la vita. E questo stesso rispetto è all’origine del suo impegno politico, così come alla sorgente della sua arte.
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