terme diocleziano

L’igiene, l’acqua e l’intuizione di Semmelweis

di Cosimo Putignano

Il rapporto dell’uomo con l’acqua è stato subito idilliaco. Infatti, sin dalla preistoria, ci adoperiamo per essere e sentirci puliti. Un rituale millenario, immutato nel tempo, diventato un gesto quotidiano semplice e naturale che tutti facciamo davanti a maestose fontane di marmo o a semplici lavabi casalinghi: lavarsi le mani.

Ma non sempre abbiamo avuto una visione univoca su cosa fosse pulito o sporco tant’è che nei libri sacri ci sono interi capitoli che prescrivono ciò che è “mondo”, cioè pulito, e ciò che è “immondo”, cioè sporco. E non sempre, nella storia dell’igiene, acqua, sapone e disinfettanti sono stati rimedi riconosciuti.

I Greci e i Romani non conoscevano il sapone, ma solo l’acqua e per rimuovere lo sporco dalla pelle usavano lo strigile. Ad Atene c’era uno speciale “assessorato” che dirigeva il lavoro dei “coprologi”, gli spazzini dell’epoca. A Roma, attraverso ben undici acquedotti, si portava ogni giorno un miliardo di litri d’acqua corrente nelle case e nelle terme dell’Urbe garantendo a più di un milione di persone di bere, lavarsi ed espletare in sicurezza i propri bisogni fisiologici.

Dal Medioevo all’Illuminismo, passando per il Rinascimento, in Europa l’uso dell’acqua per bagnarsi, invece, fu scoraggiato o addirittura vietato dai medici: l’acqua, secondo loro, apriva i pori della pelle attraverso i quali potevano insinuarsi gravi malattie. Se veniva concesso un bagno, era poi consigliato un giorno di riposo a letto per recuperare il presunto indebolimento del corpo!

Nel Vecchio Mondo, quindi, si faceva largo uso di profumi e ci si puliva “a secco”, con crusca, sabbia e cipria. Gli indios del Nuovo Mondo si lavavano con la cenere e non disdegnavano l’acqua.

Gli Arabi, nel frattempo, avevano inventato il sapone come lo intendiamo noi (a base di soda caustica) e salvato la tradizione romana dei bagni e delle latrine pubbliche, oltre agli scritti dei filosofi greci.

L’atteggiamento della Chiesa cattolica, l’unica grande istituzione religiosa a non avere prescrizioni igieniche rituali vincolanti (diversamente da ebraismo, islamismo e induismo) non contribuì alla diffusione dell’igiene. Il Cristianesimo – forse anche per contrapporsi al mondo romano – fece abbandonare la plurisecolare funzione igienica e sociale dei luoghi termali; le terme diventarono sinonimo di bordello, con bagni e saune come accessori della prestazione sessuale.

Anzi, spesso si attribuì valore spirituale alla sporcizia: essere in “odore di santità” poteva significare rinunciare all’igiene e alla cura del corpo per dedicarsi unicamente alla cura dell’anima. Pare che sant’Agnese, portata come esempio di virtù cristiana, non avesse mai fatto un bagno in vita sua. E san Girolamo affermava: «Chi è battezzato in Cristo non ha bisogno di fare altri bagni».

Eppure sono state proprio le religioni i primi “ministeri della sanità”: prescrizioni sulla pulizia del corpo (comprese le abluzioni rituali), sul consumo dei cibi e sull’isolamento di malati infettivi sono presenti nelle Sacre Scritture. Se lo diceva Dio… il divieto era di sicuro effetto!

Ancora oggi nel mondo ebraico, al mattino appena svegli, la prima mitzvàh è la “netilàt yadàyim” cioè l’atto di lavarsi le mani. Questo gesto, semplice e naturale, è un rito di purificazione perché la notte, momento in cui si dorme e quindi improduttivo, corrompe le mani. La tradizione ebraica dice, infatti, che l’Uomo riceve impurità quando non fa qualcosa di importante per cui è stato creato.

[ Nel corso della storia gli ebrei sono sempre stati additati come untori, perché nelle loro comunità le malattie epidemiche attecchivano poco e niente in quanto lavarsi era pratica diffusa oltre che un precetto religioso.]

Il gesto di lavarsi le mani, com’è noto, ha anche una valenza metaforica. Esso rappresenterebbe il modo per “pulirsi la coscienza”, così come fece Ponzio Pilato: “cancellare” le tracce di un comportamento immorale quasi che il fatto non fosse mai successo.

Ci sono voluti secoli per capire quali agenti nella “materia fuori posto” fossero nocivi per la salute. Ci si copriva con vestiti stretti, lasciando scoperti solo viso e mani per timore che le malattie, come spiriti maligni, passassero attraverso la pelle.

Si pensava che germi e parassiti si generassero dalla sporcizia, cioè nella materia inanimata vi fosse la nascita della vita. Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani smentirono queste bizzarre, ma radicate, teorie.

Al di là dei precetti religiosi, delle mode e del buon senso l’igiene delle mani diventò una regola solo sul finire dell’800, anche se il vero contributo scientifico alla causa è antecedente di molti anni prima.

Ignaz Semmelweis era un medico ungherese che lavorava all’Allgemeine Krankenhaus di Vienna, più precisamente nel reparto maternità, in cui si registrava un altissimo tasso di decessi di mamme e neonati, subito dopo il parto, a causa della tremenda “febbre puerperale”.

Semmelweis decise di impegnarsi per capirne la motivazione. Siamo nel 1840, i germi non erano ancora stati scoperti e si credeva che ad uccidere i neonati e le loro madri fossero i “miasmi”, cioè i cattivi odori emanati dai cadaveri in decomposizione presenti nel nosocomio, dalle nauseabonde fognature o dalla circostante vegetazione in putrefazione, per cui il massimo che si faceva era chiudere bene porte e finestre.

Ma la prassi, in una medicina dove non esisteva ancora la specializzazione, era che i medici passassero da un’autopsia a un parto in pochi minuti e senza sentire la necessità di lavarsi le mani. Un giorno uno di questi medici si tagliò un dito con un bisturi e morì della stessa febbre che attaccava e uccideva puerpere e bambini. Secondo Semmelweis non era un caso.

Il medico intuì che poteva esserci una certa connessione tra il lavoro in obitorio e quello in sala parto. Il suo riferimento era sempre il cattivo odore, secondo lui era in quel modo che le particelle dei cadaveri finivano per intaccare i neonati, cosa chiaramente errata ma che gli fece venire in mente una soluzione che si rivelò non solo giusta, ma quasi rivoluzionaria: chiese ai colleghi, prima di occuparsi del parto, di lavare le mani e lo strumentario chirurgico con un una soluzione a base di cloro.

Prima dell’esperimento il tasso di mortalità per le puerpere era del 18%. Dopo che Semmelweis implementò l’igiene delle mani tra l’obitorio e la sala parto, il tasso di mortalità scese all’1%. Ma nel 1840, nonostante i numeri stupefacenti, la novità non fu accettata dai colleghi che, al contrario, venendo tutti da classi dell’alta borghesia austriaca, convinti che il gradino che occupavano nella scala sociale li rendesse puliti a prescindere, si sentirono offesi da tale iniziativa deridendo e isolando il collega.

Semmelweis non solo perse il lavoro, ma cadde in rovina e torno in Ungheria dove morì, in un ospedale psichiatrico, all’età di 47 anni.

Un passo decisivo, poi, venne compiuto con la scoperta dei batteri e l’uso del fenolo. Quando nel 1861 il chirurgo inglese Joseph Lister iniziò a lavorare al Royal Infirmary Hospital di Glasgow, il 90% dei casi di fratture finiva con l’amputazione. Lister notò che la gangrena raramente si presentava al di fuori degli ospedali. Non doveva quindi dipendere dai “gas venefici” indicati dalla “teoria dei miasmi”, ma da qualcosa che la trasmetteva da un paziente all’altro.

Louis Pasteur dimostrò, di lì in seguito, come la fermentazione dei liquidi fosse legata ai batteri e come la bollitura fosse capace di bloccarla. Lister intuì che nelle ferite avveniva qualcosa di simile: se il calore bloccava la fermentazione, che cosa poteva impedire la putrefazione? Lister allora usò il fenolo (un deodorante per le fogne).

Dal 1867, questo metodo – detto antisettico – e la disinfezione dei ferri chirurgici dimostrarono il valore dell’igiene su base scientifica.

Alla fine dell’800 il tedesco Robert Koch scoprì il bacillo dell’antrace dando il via al nuovo corso della microbiologia medica. Seguirà la scoperta del vibrione del colera (Pacini e Koch), del bacillo della tubercolosi (sempre Koch) della difterite (Klebs e Loeffler) e del tifo addominale (Eberth e Gaffky).

Oggi, per qualsiasi atto chirurgico è prassi regolare il lavaggio delle mani, la successiva vestizione degli operatori con camici sterili e l’uso di disinfettanti per preparare il “campo operatorio”.

Dietro una semplice ritualità si nasconde un grande gesto che può salvare vite umane! Per cui, al tempo del Coronavirus, gli imperativi sono due: STATE A CASA e LAVATEVI spesso LE MANI!