Carlo Levi e Giacomo Debenedetti a proposito di un ritratto
Nel 1975 Natalino Sapegno, l’insigne dantista e, dal 1937 al 1976, professore di Storia della Letteratura Italiana nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, alla scomparsa di Carlo Levi, l’amico degli anni adolescenziali e formativi vissuti nella Torino di area gobettiana, rievoca con accenti trepidi quella stagione:
Tutti coloro che quegli anni hanno vissuto (e ne hanno ricevuto un’impronta indelebile, che ha segretamente diretto e condizionato tutta la loro esistenza posteriore) si sentono tuttora stretti da un legame profondo seppure indefinibile. I casi della vita possono averli allontanati e dispersi per diverse strade; ma quando si ritrovano, […] subito si riconoscono in un segno che un poco li distingue dagli altri, non per appartarli e rinchiuderli in un recinto di sterili memorie, ma per incitarli a riprendere il filo di una lezione che non si è esaurita, che può ancora essere utile.[1]
E in uno scritto del 1976:
L’amicizia tra Carlo e me era nata sui banchi della scuola elementare […]. Ma doveva ben altrimenti rinsaldarsi (negli) anni in cui primamente ci affacciavamo ad esplorare gli uomini e le cose, e costruivamo i fondamenti della nostra cultura e formavamo la nostra mente e il nostro carattere; (…. anni che) coincidono con un momento particolare nella vita civile e culturale di Torino, e nella storia del paese, un momento che avrebbe segnato nell’animo di chi si trovò a viverlo, come noi, con profonda partecipazione, un’impronta incancellabile.[2]
In quel “noi” il pensiero di Sapegno va senza dubbio anche all’altro coetaneo torinese Giacomo Debenedetti, il grande saggista scomparso nel 1967 a Roma, dove si era traferito nel 1937 e dove ha insegnato dal 1958, nella Facoltà di Lettere della Sapienza, come docente incaricato di Storia della Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea.
Inevitabile quindi la sorpresa nel constatare l’assenza di documenti che testimonino rapporti diretti tra Debenedetti e Levi, entrambi di famiglia ebraica i quali, dal 1937 il primo e dal 1945 l’altro, spendono a Roma l’ultimo segmento della loro esistenza, condividendo peraltro molte amicizie, in primo luogo quella di Umberto Saba.
In questa prospettiva il ritratto di Debenedetti, disegnato a carboncino da Levi e datato 1968, ritrovato dal figlio Antonio tra le carte della madre, si configura come un documento di singolare interesse.[3]
È il profilo di un volto non più giovane, solcato da profonde pieghe e investito dalla luce di un sorriso appena accennato che comunica un innegabile, ironico, distacco dal contingente, mentre lo sguardo, orientato verso un misterioso altrove, porta allo scoperto un io interiore che l’io mondano volutamente contraffà e nasconde.
Soccorre in esergo l’annotazione dello stesso Levi:
“Dalla Torino adolescente
più antica dell’amicizia
scopriva la poesia
e fraterni i poeti”.
La città di Torino è evocata da Levi come lo sfondo imprescindibile del percorso esistenziale e creativo suo e di Debenedetti: è lì che tutto è cominciato.
Esplicite in questa direzione le pagine del romanzo del 1950, L’Orologio, nelle quali Levi, distogliendo lo sguardo dalla Roma post-resistenziale, torna con la memoria alla Torino dell‘adolescenza e sottolinea che allora tutti i giovani di area gobettiana scoprivano la poesia.
Il riferimento non può che essere in primo luogo a Debenedetti il quale nel 1922, insieme a Emanuele Sacerdote, Mario Gromo e Sergio Solmi, fondava a Torino la rivista “Primo Tempo” che, dal primo fascicolo del 15 maggio all’ultimo del dicembre 1923, riservava ampio spazio alla poesia contemporanea italiana: ospiti l’esordiente Eugenio Montale con Riviere, Accordi, L’agave su lo scoglio, Giuseppe Ungaretti con versi da Allegria di naufragi e Umberto Saba con Preludio e Canzonette.
Nel ritratto di Debenedetti disegnato da Levi in absentia potrebbe quindi leggersi il rincrescimento per una amicizia mancata in seguito alla scelta, già negli anni giovani, di linee di pensiero inconciliabili, nonostante referenti esistenziali e culturali condivisi.
È il caso di Felice Casorati la cui opera pittorica rende di fatto possibili esiti interpretativi diversi per la fissità e la atemporalità delle immagini le quali rimandano a un modello inizialmente duro e quasi metallico che poi si stempera in volumi perfetti, dai contorni meno rigidi, costruiti tutti da colori purissimi, accostati per valori tonali.
Se Levi riprende da Casorati la ‘esaltazione pura del visibile’, Debenedetti al contrario ne privilegia quella tecnica del disoccultamento alla quale conformerà tutto il suo percorso di critico militante, saggista e storico della letteratura italiana tra otto e novecento, in costante dialogo con la grande narrativa europea, da Proust, a Kafka, a Joyce.
Nei quaderni degli anni Sessanta, preparatori per le lezioni di Storia della Letteratura Contemporanea alla Sapienza, che confluiranno nel volume postumo Il romanzo del Novecento, Debenedetti confessa:
Questa esigenza di narrare non più le cose, ma le loro epifanie, la vita seconda che si svela nelle epifanie, costituisce il carattere iniziale, il tema originario, a nostro modo di vedere, del nuovo romanzo. Il quale è anti – naturalista, si oppone al naturalismo, proprio perché sottomette gli oggetti, personaggi e fatti, del romanzo naturalistico a quell’atto esplosivo che li porta ad aprirsi come una scorza. Il nuovo romanzo disocculta ciò che il materiale e il trattamento narrativo-descrittivo del romanzo naturalista aveva occultato.
È di tutta evidenza che l’opera sia letteraria che pittorica di Levi non è nelle sue corde proprio in quanto gioca in essa un ruolo particolarmente incisivo la componente dell’impegno civile, assorbita in quella Torino degli anni Venti nella quale Piero Gobetti si adoperava per una rivoluzione liberale in cui coniugare libertà e giustizia.
Irrinunciabile di fatto la scelta di Levi già allora della militanza politica che segnerà tutto il suo percorso di scrittore e pittore laddove nella linea di pensiero di Debenedetti la parola d’ordine dell’uomo di cultura è l’estraneità rispetto all’esercizio del potere.
E tuttavia a partire dagli anni Quaranta, in seguito alla Shoah, il suo atteggiamento in questa direzione è assai meno rigido.
Emblematiche le pagine di 16 Ottobre 1943, l’intensissimo racconto / saggio della razzia nel ghetto ebraico di Roma, definite da Natalino Sapegno “bellissime per vigore e rievocazione e lucidità di giudizio”.
Problematico al contrario, e in qualche passaggio inquietante, il saggio pressoché coevo, Otto ebrei, scritto da Debenedetti nel settembre 1944 e pubblicato nello stesso anno nelle edizioni “Atlantica”, incentrato sulla cancellazione, da parte di un commissario di Pubblica Sicurezza, di 8 ebrei dalla lista di coloro che sarebbero stati trucidati nelle Fosse Ardeatine.[4]
Debenedetti ritiene questo un gesto di una “ambiguità canagliesca, […] un’antipersecuzione della medesima sostanza psicologica e morale della persecuzione”.
Creare eccezioni a vantaggio degli ebrei non è a suo avviso un modo di riparare dei torti: ‘riparazione’ dovrebbe essere piuttosto rimettere gli ebrei in mezzo alla vita degli altri, nel circolo delle sorti umane.
E procedendo sul filo di una logica lucida e implacabile si spinge fino ad auspicare “la libertà di essere antisemiti”, a condizione che si tratti di un “antisemitismo di uomini liberi contro cui sia dato di opporre validi argomenti e pertinenti confutazioni”.
Inevitabili le immediate prese di distanza, più o meno esibite, nell’ambito della borghesia intellettuale ebraica.
Si ripercorra al riguardo il passaggio di una lettera di Saba inviata a Debenedetti il 27 aprile 1946:
Altre cose di me che possono esserti dispiaciute sono l’accusa che ti ho sempre fatta di esser – senza sapere di esserlo – un antisemita (non ci sarebbe niente di male data la nobiltà del tuo carattere se tu lo fossi in modo cosciente, mentre così puoi diventare addirittura pericoloso).[5]
L’accusa è bruciante.
È tuttavia ipotizzabile che, al di là dello sconcerto suscitato dal saggio Otto ebrei, ad aver agito nella formulazione del giudizio tranchant di Saba, il quale attribuiva le sue nevrosi all’essere figlio di due ‘razze in antica tenzone’, possa aver contribuito la ostilità, largamente condivisa allora nella comunità ebraica, ai matrimoni misti.
E quello contratto da Debenedetti nel 1930 con Anna Maria Renata Orengo, di famiglia aristocratica italo / russa e cattolica praticante, conosciuta nel 1919 in occasione della esecuzione dei Maestri Cantori nel Teatro Regio, si configurava senza dubbio come un caso tanto più ‘esecrabile’ in quanto i contraenti erano due intellettuali di rilievo nella Torino di quegli anni.[6]
È tuttavia improbabile qualche disagio in questa direzione da parte di un ebreo laico quale era Levi: la mancata amicizia discende unicamente, come si è accennato, dalla sostanziale chiusura di Debenedetti a ogni forma di scrittura letteraria di carattere documentario, in particolare al neo-realismo.
Non trascurabile al riguardo la sua decisione di sospendere, dal 14 settembre 1947, la collaborazione a “L’Unità”, organo ufficiale del Partito Comunista (al quale si era iscritto nell’autunno 1944), in quanto giudicava inaccettabile la scelta di fondo del quotidiano di una letteratura di ispirazione ‘neo-veristica’.
Nella stessa linea di pensiero la sua responsabilità della esclusione del romanzo, L’Orologio, dalla candidatura al Premio Viareggio 1950, confermata dalla intemerata di Umberto Saba, vicinissimo sia a Carlo, compagno dal 1945 di sua figlia Linuccia, sia a Giacomo, che considera il suo De Sanctis.
Non v’è dubbio che in quest’ultimo caso l’atteggiamento di Debenedetti sia più difficilmente giustificabile proprio in quanto non può essere sfuggito a un lettore della sua intelligenza e capacità di penetrazione che nel romanzo L’Orologio la realtà rappresentata è ben lontana da quella documentaria di Cristo si è fermato a Eboli.
Emblematica la descrizione del mormorio indistinto che corre per le strade della Roma notturna, che sorprende e avvince il lettore già nelle prime righe:
“La notte, a Roma, par di sentire ruggire i leoni”.
Non è trascurabile peraltro che Levi abbia avuto l’opportunità di incontrare per la prima volta Umberto Saba nel 1924 proprio in casa Debenedetti.
E se, a partire dal nuovo incontro a Firenze nel 1941, diventerà un assiduo lettore del poeta di Trieste e una donna, è assai probabile che l’ascendente di Debenedetti abbia svolto in questa direzione un ruolo non trascurabile, anche se nei numerosi articoli e saggi che Levi dedica alla poesia sabiana non viene mai meno l’attenzione alla problematica politica e sociale.
Quel che infatti deve aver sedotto Levi è il singolare connubio di poesia e etica che contrassegna di fatto l’intero percorso artistico e umano del poeta triestino.
Non è casuale che nel dicembre 1957, a circa tre mesi di distanza dalla morte, nel corso di una conferenza tenuta al Circolo Giovanile Ebraico, Levi confessi di aver trovato tra le carte sabiane una sorta di giovanile manifesto poetico intitolato Quello che resta da fare ai poeti, il cui incipit recita: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”.[7]
In questa linea di pensiero già il suo scritto, Un bene antico, pubblicato sul “Corriere della Sera” del 14 agosto 1946 :
Se al tavolo della pace potessero avere un peso gli argomenti veri e non quelli vani della potenza e dell’avara volontà, il Canzoniere di Umberto Saba sarebbe un argomento assai più forte dei plebisciti, delle commissioni e delle corazzate. […].
Dalla marea che un popolo ha sommerso
e me con esso, ancora
ascolto? Ancora non è tutto perso?
Nulla è perso per un Paese che può ancora esprimere una così complessa e ricca poesia. […]. Il Canzoniere non è che una continua e precisa autobiografia, un racconto di amori, di famiglia, di città, un romanzo di angosce, a cui portano un contributo continuo le vicende, la guerra, il nazismo, i colori del giorno, la civiltà composita e viva di Trieste, e l’esperienza psicoanalitica. Tutto questo contenuto e motivo di poesia è sostanza della crisi contemporanea.
E in explicit:
Ma la poesia di Saba va al di là del mare in tempesta della crisi, la contempla dall’altezza maggiore che non la cresta di un’onda, la trasforma in qualche cosa di sereno e compiuto, dove un’ingenua grazia arcaica si sposa a un’antichissima e naturale sapienza.
Innegabile in questo giudizio l’ascendente di Debenedetti, la cui genialità interpretativa non solo dell’opera sabiana deve aver sempre sedotto Levi.
In questa prospettiva Debenedetti si configura di fatto come il solo imputabile della mancata amicizia.
Di qui la problematicità della stessa lettura del ritratto oggetto di questo studio.
Un j’accuse dissimulato in forma di cauto omaggio?
Giova al riguardo ricordare un passaggio di Il ritratto, un manoscritto del luglio 1935, in cui Levi sottolinea che ogni ritratto è anche un autoritratto.
È quindi attendibile l’idea che il ritratto di Debenedetti, disegnato in absentia, testimoni indirettamente da parte di Levi una ammirazione che la perdurante assenza di rapporti amicali ha semmai rafforzato, particolarmente negli anni successivi al trasferimento a Roma, città d’ elezione per entrambi, come per molti degli amici dell’adolescenza torinese e, in primo luogo, per l’altro grande coetaneo, Natalino Sapegno, con il quale è iniziata la presente riflessione.
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Rosita Tordi Castria
[1] N.Sapegno, Sul filo di un’antica amicizia (Ricordo di Fanco Antonicelli) 1975;.
[2] N.Sapegno, Ricordo inedito di Carlo Levi, 1976 (Fondazione N.Sapegno)
[3] Unico documento che attesti la loro vicinanza negli anni torinesi è una cartolina inviata a Debenedetti da Venezia il 25 aprile 1926 con la firma di Francesco Menzio, Felice Casorati e Carlo Levi, conservata nel Fondo Giacomo Debenedetti dell’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux.
[4] G. Debenedetti, Otto ebrei, in 16 ottobre 1943, Milano, “La nave di Teseo”, 1923.
Lo scritto Otto ebrei, uscito nel 1944, con la solidale prefazione di Carlo Sforza, all’indomani della liberazione dell’Italia centrale, mentre ancora durava la guerra e nei campi della morte operavano le camere dei gas e i crematori, è stato accusato di ‘ingratitudine’.
Debenedetti non ha accolto con favore la spartizione in sede ONU del territorio della Palestina in due stati, deliberata il 29 novembre 1947, in quanto riteneva la fondazione di uno Stato non adeguata né alla storia né alla condizione ebraica.
[5] G. Debenedetti, Lettere di Umberto Saba in “Nuovi Argomenti” n°41, nov.dic. 1959
[6] Anna Maria Renata Orengo nasce a Torino il 24 ottobre 1907 dal marchese ligure Antonio Orengo e dalla contessa russa Valentina Tallevitch. Nel 1929 si laurea in Storia dell’Arte avendo come relatore Lionello Venturi.
Nell’esilio di Cortona scrive, nel giugno – luglio 1944 Diario del Cegliolo. Cronaca della guerra in un comune toscano, pubblicato da Scheiwiller nel 1965.
Traduce dal francese opere di Nerval, Renard e Cocteau.
[7] C. Levi, Saba e il mondo ebraico in Prima e dopo le parole, Roma, Donzelli, 2001
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